lunedì 23 novembre 2009

Tizano Terzani e il Tibet di Pietro Verni

La prima volta che sentii parlare Tiziano Terzani di Tibet non fu di persona (all'epoca non lo conoscevo ancora) ma attraverso uno schermo televisivo. Lui non era ancora rinato in quel bel vecchio e saggio yogi dall'incolta barba bianca che ci hanno consegnato le ultime immagini di questa sua esperienza terrena. Era "solo" il corrispondente dall'Asia del settimanale tedesco Der Spiegel, dal conversare pirotecnico, con un bel volto glabro su cui spiccavano due folti baffi neri e due occhi scuri che dardeggiavano sguardi in cui carisma, passione, intelligenza giocavano a rimpiattino con quel suo elegante accento fiorentino che non lo abbandonava mai. Se non ricordo male si era all'inizio degli anni '80, e la Rai stava trasmettendo una lunga intervista a Tiziano che rappresenteva il filo conduttore di una bella trasmissione sulla Cambogia e lui, prendendo spunto dalle avventure di Pol Pot e compagni, aveva approfittato per parlare a briglia sciolta dell'intera situazione geo-politica dell'Asia, quel continente che aveva segnato così profondamente la sua esistenza professionale ed umana. In quel periodo pochi, pochissimi giornalisti si ricordavano che esisteva un Paese chiamato Tibet da alcuni decenni occupato illegalmente dalla Cina. Tiziano invece, mentre stava raccontando degli sforzi del principe Sianouk per ottenere l'aiuto della comunità internazionale contro l'invasione vietnamita della Cambogia, fece un parallelo tra la difficile situazione in cui si trovava il monarca cambogiano e quella altrettanto drammatica in cui si trovavano il Dalai Lama e il suo martoriato paese. In poche, concise frasi descrisse quello che era successo, e che ancora stava succedendo, sul Tetto del Mondo nel silenzio generale di opinione pubblica e goberni. Più o meno nello stesso periodo, Tiziano Terzani aveva parlato di Tibet anche in quello che, a mio modesto avviso, ancora oggi si può considerare il suo libro più intenso, appassionato e riuscito: La Porta Proibita. Uno sterminato reportage dalla Cina Popolare lungo centinaia di pagine in cui Tiziano racconta cosa è veramente successo in quello che fu l'Impero di Mezzo dopo la presa del potere da parte di Mao e del Partito Comunista. E all'interno di quell'affresco drammatico e impietoso (ancor più difficile per uno come lui che per anni aveva creduto profondamente nella bontà dell'esperimento maoista) c'è un capitolo dedicato al Tibet in cui l'orrore dell'occupazione cinese viene rivelato senza reticenze o ipocrisie. Certo oggi, quando il Tibet e il Dalai Lama sono finalmente usciti dal cono d'ombra in cui erano stati relegati per tanto tempo, un capitolo dedicato al Tetto del Mondo all'interno di un libro sulla Cina può sembrare poca cosa. Ma nella prima metà degli anni '80 non lo era. In quel momento le parole di un giornalista come Tiziano Terzani erano uno dei pochi elementi cui, tutti coloro che cercavano con fatica di sollevare la questione tibetana, potevano rifarsi. Infatti, dal momento che nelle librerie La Porta Proibita era quasi introvabile, l'Associazione Italia-Tibet comprò da Longanesi le ultime decine di copie per diffonderle attraverso i propri canali. Tra le tante fortune che mi sono capitate in questa vita, c'è stata quella di conoscere personalmente Tiziano Terzani e continuare a frequentarlo per diversi anni. Nel 1993 avevo infatti pubblicato un libricino sul Mustang, un'area tibetana che fa parte del Nepal e in cui Tiziano stava per recarsi. Un comune amico gli aveva detto che ero a Delhi, dove nei primi anni '90 lui dirigeva l'ufficio di Der Spiegel, è così mi volle incontrare per fare una chiacchierata sul quel remoto angolo dell'Himalaya. Arrivò a cena vestito con un'elegante giacca di panno bianco nepalese e si mise a parlare con me come se ci conoscessimo da sempre. Voleva sapere se era vero che in Mustang la cultura tibetana era ancora quasi incontaminata, se i silenzi fossero davvero immensi come li avevo descritti nel mio libro, le valli così sterminate, il vento così insistente, i tagli di luce così puri e tersi. Andammo avanti fino a notte inoltrata. Lui che chiedeva, io che rispondevo e a mia volta facevo a lui molte domande. Sorrise quando gli ricordai l'intervista televisiva in cui parlava del Dalai Lama e gli raccontai che avevo fatto acquistare all'Associazione Italia-Tibet le ultime copie del suo La Porta Proibita. Inutile dire che dal Mustang il discorso ben presto si ampliò fino ad abbracciare l'intero universo tibetano, il maoismo, i rapporti tra la Cina, l'India e il Tibet. Tra l'altro, ridendo, Tiziano mi disse che si riteneva in qualche modo un "osservatore privilegiato" dell'universo tibetano che frequentava, "come dire, quotidianamente" avendo due ragazze tibetane che si prendevano cura della sua abitazione indiana. Con mia grande gioia a quella prima chiacchierata ne seguirono molte altre per tutto il periodo in cui Tiziano rimase a Delhi e anche se non si discuteva solo di Tibet, di sicuro quello era uno dei nostri argomenti preferiti. Penso di poter dire che il suo interesse per il "Paese delle Nevi" era attraversato da una particolare forma di simpatia. Forse sarebbe esagerato dire che lo amava ma certo ne parlava sempre con grande tenerezza. Ad esempio gli piaceva frequentare i tibetani. Era felicissimo quando ai nostri incontri partecipava anche mia moglie Karma, a cui non si stancava mai di chiedere notizie sulla sua condizione di profuga tibetana. In particolare gli piaceva nei tibetani quel sapere essere fedeli alle proprie radici senza chiudersi in una dimensione reazionaria. "Non hanno bisogno di recinti, che poi sono prigioni per chi li alza," mi diceva spesso, "per essere fedeli a loro stessi". Così come lo intrigava -e ammiccava sornione quando ne parlava- quel sottofondo di magia, superstizione e mistero che secondo lui, "... c'è nel fondo dell'anima di ogni tibetano". E la cosa lo divertiva, lui così profondamente laico ma proprio per questo in grado di accettare anche e soprattutto i punti di vista e i comportamenti tanto distanti dal suo. Spesso parlava degli elementi di contatto e delle differenze esistenti tra la Cina e il Tibet. E una delle cose a favore di quest'ultimo era, secondo lui, la gran facilità che hanno i tibetani a sorridere. "Quello che mi colpisce di questa gente", mi confidò una sera, "è quanto siano pronti alla risata. Nonostante tutto quello che hanno passato e che stanno passando è raro che un tibetano, mentre stai parlando con lui, non sia pronto ad esplodere in una fragorosa risata. I cinesi invece non ridono quasi mai e quando lo fanno è come se ne provassero vergogna." Quello che invece proprio non sopportava del mondo tibetano era la cucina. "Eh, qui invece la vincono proprio i cinesi. I tibetani hanno pochi piatti e non sono mai granché appetibili. A cominciare da quelle terribili palline di tsampa [farina d'orzo abbrustolita elemento tipico della cucina tibetana, N.d.C.] che mangiano con il tè... che è pure salato! Vuoi mettere con la raffinatezza della cucina cinese. E che dico cinese! E' una cucina di un continente immenso dove ogni regione ha i suoi piatti tipici e quasi sempre gustosissimi. Eh, no mio caro per quanto possa essere dalla parte dei tibetani riguardo al mangiare mi sento cinese!". E in questo mi ricordava un suo grande concittadino, Fosco Maraini, che mi disse una volta di amare tutto del Tibet tranne la sua alimentazione. E poi a Tiziano del Tibet e dell'Himalaya piacevano i grandi spazi. Le distese sconfinate, le valli che si perdono all'orizzonte senza mostrare una fine, "... così diverse dalle nostre che per quanto belle sono sempre vicine a finire". E i silenzi. I silenzi assoluti, totali, "pneumatici", di quel mondo. Per questo trovava la modernizzazione imposta da Pechino al Tibet ancora più insostenibile. E non aveva, per sua fortuna, visto cosa è successo al Tibet in questi ultimi anni. "Non solo lo hanno occupato... non solo la loro repressione è durissima ma ne hanno anche violato i silenzi..." mi raccontò sconsolato più di una volta. Lui che viveva nel frastuono del mondo dell'informazione di cui era uno dei principali protagonisti era sedotto dal richiamo dei grandi silenzi tibeto-himalayani e rimpiangeva di non potervi rimanere immerso quanto avrebbe voluto. L'interesse e la tenerezza di Tiziano per il Tibet venne ancor più amplificata dall'intervista che fece, non mi ricordo esattamente quando ma doveva trattarsi della seconda metà degli anni '90, a Dharamsala con il Dalai Lama. "Mi aspettavo una persona interessante ma il tuo Tenzin Gyatso è veramente eccezionale. Capisco perché gli dedichi tutto quel tempo" mi disse quando ci vedemmo dopo che l'aveva incontrato. Soprattutto del Dalai Lama apprezzava la capacità di muoversi lungo orizzonti ampi. Di non aver paura dell'utopia. Di ritenere possibile un mondo migliore dove le buone intenzioni fossero comune moneta di scambio e non sogni irrealizzabili. Abbiamo spesso discusso sulla visione del Dalai Lama riguardo alla scelta della non violenza e Tiziano era assolutamente d'accordo con le posizioni del leader tibetano. Molto più di quanto non lo fossi (e non lo sia) io. E poi era rimasto affascinato dalla freschezza del Dalai Lama, dalla sua capacità di stupirsi, di entusiasmarsi. E questa freschezza, questo avere la mente aperta di un principiante, questo essere sempre come all'inizio del viaggio era un tratto che sicuramente avvicinava Tiziano al Dalai Lama. Perché Tiziano, nonostante negli ultimi decenni della sua vita non avesse fatto altro che viaggiare, si metteva sempre in cammino come si trattasse della prima volta. Fu una delle cose che maggiormente mi colpirono di lui quando lo conobbi. Era uno dei corrispondenti più famosi del mondo. Aveva viaggiato per tutta l'Asia. Aveva alle spalle una folgorante carriera. Eppure stava preparandosi ad entrare in quel minuscolo angolo himalayano che è il Mustang, con l'entusiasmo di un ventenne alla vigilia della sua prima partenza. Stesse curiosità, stessa eccitazione, stessa voglia di prendere e andare. Un giorno glielo dissi. Gli dissi come mi aveva colpito la sua eccitazione per un viaggio tutto sommato minore rispetto a tanti altri che aveva fatto. E lui mi rispose che "... il segreto è proprio qui. Non farsi intorpidire dall'abitudine, se no è finita. Ogni viaggio deve essere come il primo altrimenti non c'è più mistero, non c'è più magia e il tuo lavoro diventa ripetitivo, inutile. E rischi di non capire quello che hai davanti perché il nuovo ti sembra sempre vecchio". Stavo terminando questo articolo quando ho visto in televisione l'ultima intervista che Tiziano aveva rilasciato un paio di mesi prima di lasciare il corpo. Sembrava uno swami indiano. L'enorme barba candida, i capelli raccolti in una piccolo chignon dietro la nuca, un lungo kurta pijama bianco come abito... esteticamente era molto diverso dal giornalista con cui avevo trascorso alcune delle serate più interessanti della mia vita. Però lo sguardo, anche se leggermente velato dalla malattia, era quello di sempre. Penetrante, deciso, intenso. Uno sguardo che spiega e interroga al medesimo tempo. E anche l'entusiasmo era quello di sempre. Ha parlato di pace e non violenza, un tema che negli ultimi tempi gli era particolarmente caro e per il quale si era radicalmente schierato. Ma ha anche parlato del Viaggio e, in particolare, di quest'ultimo grande viaggio che stava compiendo verso l'abbandono del presente corpo fisico. Non parlava più di morire ma, come ogni buon orientale, di "lasciare questo corpo". E ha parlato di tante altre cose. Anche di molte di cui avevamo discusso insieme. Per esempio di uno degli aspetti della filosofia orientale che lo affascinava di più. L'armonia degli opposti. Quell'idea che una cosa non può esistere senza il suo contrario. L'idea dell'intrinseca unità del creato. Che tutto sia uno. Che non esista il nero senza il bianco, che non esista il bene senza il male. L'intervista avveniva nel suo piccolo eremo toscano dove si era ritirato per trascorrere in pace l'ultimo tratto di strada prima del "... termine di questo viaggio". Eppure mi sembrava di essere nella sua bella casa di Delhi quando, proprio come ad Orsigna, affermava, "Tutto è uno. Questa idea della dicotomia è profondamente sbagliata. E niente meglio di un grande simbolo asiatico, in questo caso cinese, questa ruota con lo Yin e lo Yang, rappresenta la vita, l'universo... è l'armonia degli opposti. Perché non c'è acqua senza fuoco, non c'è femminile senza maschile, non c'è notte senza giorno, non c'è sole senza luna, non c'è bene senza male. E questo segno dello Yin e dello Yang è perfetto. Perché il bianco e il nero si abbracciano. E all'interno del nero c'è un punto di bianco e all'interno del bianco c'è un punto di nero".
Addio Tiziano. O meglio arrivederci. Chissà che non ci si possa incontrare di nuovo per "un altro giro di giostra". Magari per goderci insieme il silenzio e l'immensità degli spazi tibetani. In un Tibet finalmente libero e indipendente.

Giuliano Amato racconta Tiziano Terzani

Tiziano Terzani fu mio compagno, negli anni universitari, al collegio Sant'Anna di Pisa. Mi diceva: «Voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». In Asia maturò una radicale ostilità verso la guerra. Negli ultimi tempi giunse alla convinzione dell'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, quello della vita: una visione per cui la guerra non ha senso alcuno. Ma non gli renderemmo un buon servizio se ne facessimo un santone del pacifismo.
Non avevamo ancora vent'anni quando ci conoscemmo. Ciascuno di noi veniva dal suo liceo, dalla sua provincia ed essere in quel collegio a Pisa, all'università, significava per Tiziano, per me e per gli altri superare i confini dentro i quali eravamo cresciuti, entrare in un mondo più grande, scrutarlo e cercarci quello che quei confini ci avevano negato. Si crearono, come sempre accade, amicizie più strette e si formarono piccoli gruppi, all'interno dei quali la ricerca avveniva lungo gli stessi percorsi. Ed erano percorsi i più diversi. Potevano essere infinite discussioni notturne sulla Montagna incantata o trasgressive esperienze di coppia, vissute nello stesso collegio contro le regole di allora, che vietavano in radice l'ingresso di ragazze nelle nostre stanze. Giuliano e Diana, Romano ed Elena, Enrico ed Erna e poi Tiziano e Angela fecero da battistrada su questo percorso. E furono insieme anche su altri.
Poi ciascuno prese la sua strada e continuò da solo (o meglio, solo con la sua compagna) la sua ricerca. E fu a quel punto, quando da poco tutti avevamo lasciato il collegio, che capii che la ricerca di Tiziano mirava più lontano di quella degli altri. Come Romano e Carlo aveva aderito alla richiesta di personale che allora la Olivetti indirizzava ai migliori delle università (il personale lo selezionava Paolo Volponi) e si era trovato a bussare alle porte per vendere macchine da scrivere. Lo sapeva che era un'esperienza temporanea, che era la gavetta a cui tutti si dovevano assoggettare in vista di lavori più gratificanti. Ma non la sopportava e soprattutto non vedeva se stesso neppure in quei lavori più gratificanti. Mi telefonava sempre insoddisfatto e mi diceva: «Ma io voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». È già grossa detta oggi, da un ragazzo di quell'età, ma allora era enorme. Allora in Cina non si entrava neppure e io gli dicevo: «Tiziano, sei completamente matto, pazienta qualche mese e vedrai che le cose cambiano».
Ma la sua testa non era nell'Olivetti, era in Oriente. Che ci fosse perché già Tiziano sapeva che cosa cercarva e, soprattutto, che cosa ci avrebbe trovato nella stupenda stagione che ha vissuto prima di «abbandonare il suo corpo», io francamente non lo credo. Gli attribuirei di più di quanto già non avesse e lo farei essere quello che ancora non era. Ma è certo che la tenacia, la vera e propria ostinazione con cui si mise a perseguire quel disegno, che io trovavo folle, qualcosa lo provano: almeno emotivamente sentiva che là per lui c'era qualcosa di tanto importante da essere irrinunciabile. E riuscì ad andarci. Cominciò a scrivere per un giornale italiano e queste sue prime credenziali gli consentirono, con l'aiuto credo di Angela e della sua famiglia, di arrivare a Der Spiegel e di divenire inviato dello stesso Spiegel non in Cina, ma ai bordi di questa (come tutti i giornalisti occidentali del tempo). Iniziò così un'avventura che divenne una nuova vita, per lui e per la famiglia che si stava formando.
E fu una vita segnata da cambiamenti profondi, da un inveramento progressivo dell'animo di Tiziano, che oggi ci appare guidato da un filo sicuro, ma che sicuro certamente non fu. Gli costò anni di riflessione, mentre gli passavano sotto gli occhi vicende ora umanissime ora atroci; ed anni di meditazione solitaria con gli occhi puntati sulla montagna e la mente e il cuore a frugare ancora in quelle vicende. Quel filo, insomma, Tiziano se lo è trovato, lo ha districato da chissà quanti altri e ha dato da ultimo un senso straordinario e profondo alla ricerca che aveva cominciato molti anni prima. Per questo alla fine era sinceramente felice e quando se ne è andato ci ha lasciato, non con il senso della morte, ma con la felicità della vita. L'Oriente che si trovò davanti quando vi giunse, e negli anni che seguirono, fu quello del totalitarismo del comunismo cinese, della guerra in Vietnam, dei massacri cambogiani: arbitrii, uccisioni, autentiche stragi, manomissioni della vita e della libertà umane in nome di spietate ideologie. Non era imprevedibile che tutto questo facesse maturare e crescere in Tiziano una ostilità sempre più forte nei confronti della guerra, la convinzione che essa possa trovare delle occasioni, mai delle ragioni.
Meno prevedibile fu che questa ostilità arrivasse nel tempo ad assumere in lui le motivazioni e l'ispirazione che portano il soldato giapponese Mizushima, il protagonista del film L'arpa birmana, a farsi prete buddista e a percorrere l'intera Birmania per trovare e seppellire i suoi compagni morti in guerra. Ma di questo ci accorgemmo, e lui stesso si accorse, molto più tardi. Ho avuto ripetuti contatti con Tiziano nel corso degli anni. Non abbiamo mai smesso di parlare di noi, ogni volta che ci siamo visti; di noi e dei nostri figli, che intanto erano arrivati e cresciuti, e di quello che stavano facendo e che un giorno avrebbero potuto fare insieme (almeno i nostri figli maschi, entrambi legati al teatro). Ma parlavamo anche del mondo e Tiziano, pur consapevole delle radici della violenza nello stesso Oriente, le trovava in primo luogo nel corrosivo individualismo e nella spietata competitività della nostra civiltà occidentale. Lo diceva a me e non si peritava di dirlo in posti come Cernobbio, dove la sua voce era, a dir poco, solitaria e controcorrente.
Ma fin qui una voce del genere, per quanto inusitata a Cernobbio, appariva e veniva intesa come la voce di uno dei tanti occidentali attirati dall'Oriente e da quella civiltà riflessiva di cui l'India (dove infatti Tiziano viveva sempre più a lungo) è una sorta di tempio. Io stesso — devo confessarlo — lo percepivo così, non avevo ancora capito che Tiziano spiritualmente era ancora in cammino, che non era un occidentale pago di guardare criticamente l'Occidente da Oriente, ma continuava a cercare, a cercare se stesso ed il mondo. Lo avrei capito, e lo avremmo capito tutti, nella fase terminale della sua vita, quando lui stesso capì che cosa stava cercando e finalmente lo trovò, guardando la montagna. Cercava, e trovò, la fondamentale unicità del creato, l'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, che è quello della vita, che passa da una creatura all'altra e che così preserva il mondo, l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, le bellezze che godiamo. E quando ne fu pienamente consapevole, comunicò con gioia ai figli il suo eureka e in tutta serenità si accinse ad abbandonare il suo corpo. Non solo sapeva a quel punto perché sopravviviamo a noi stessi, ma sapeva perché non ha senso alcuno la guerra, e lo sapeva perché vedeva finalmente l'errore di fondo dello schema dialettico, quello che contrappone il mio io a ciò che è altro da me e che sorregge l'opzione fra la pace e la guerra, facendo della scelta della pace una scelta (così ci spiega il realismo) di basilare convenienza.
Non c'è l'altro da me, questo fu l'approdo di Tiziano. E su questo approdo la pace non ha negazione possibile. Credo che sia qui, oltre che nel suo straordinario fascino personale, la ragione dell'amore che lo circonda e della quantità enorme, forse inaspettata, delle persone che continuano a leggerlo, a parlare di lui, ad adunarsi in ogni occasione in cui lo si ricorda. In un mondo in cui ancora prevale la paura, e spesso è paura dell'altro da sé, è fortissimo il bisogno di cancellarla, questa paura, ed è fortissimo perciò il desiderio di pace. Ma non faremmo un buon servizio a Tiziano, né a quello che ci ha lasciato, se ora trasformassimo lui in un santone e Angela e i suoi figli in chierici addetti al suo altare. Se il suo approdo ha un senso, neppure lui è altro da noi ed è a noi che lui stesso ha affidato la continuazione della sua vita. Viviamola, questa vita sua e nostra, dentro noi stessi. Quando seppi della sua morte, venni preso da un pianto irrefrenabile e mentre parlavo per telefono con Angela sentivo che la mia voce era rotta dai singhiozzi. Ora quel senso di morte è scomparso. Perché la vita è davanti a noi, la vita si vive, non si commemora.

Tiziano Terzani (1938-2004)

Colombo, 11 novembre 1995. Una mattina il Galle Face Hotel è scosso da una violenta esplosione. I cadaveri, a pezzi, una torso là, una testa, un pene, le dita di una mano. Sparsi all’angolo della strada, sono osceni; ma le cornacchie sono le sole a protestare per quegli scombinati brandelli di umanità finiti improvvisamente anche sugli alberi. Il loro petulante gracchiare, nel silenzio stupefatto seguito alle esplosioni, pare il commento più saggio alla follia cui tutti qui, dopo un po’, sembriamo fare l’abitudine.
… degenerazioni e contraddizioni: in un paese dominato dal buddismo, religione della non violenza, il primo assassinio politico fu commesso da un monaco buddista; in una società dove il crimine e l’assassinio erano pressoché sconosciuti, la violenza divenne presto una costante della vita quotidiana. In Asia 1998 Longanesi

Facciamo più quello che è giusto, invece di quello che ci conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi. (da Lettere contro la guerra)
Solo se riusciremo a vedere l'universo come un tutt'uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. (da Lettere contro la guerra)
Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. (da Lettere contro la guerra)

"Io chi sono?". La risposta sta nel porsi la domanda, nel rendersi conto che io non sono il mio corpo, non sono quello che faccio, non sono quello che posseggo, non sono i rapporti che ho, non sono neppure i miei pensieri, non le mie esperienze, non quell'Io a cui teniamo così tanto. La risposta è senza parole. È nell'immergersi silenzioso dell'Io nel Sé. (da Un altro giro di giostra)…È sempre così difficile giudicare il senso di quel che ci capita nel momento in cui ci capita e bisognerebbe imparare, una volta per tutte, a dare meno peso a quella distinzione– bene o male, piacere o dispiacere– visto che il giudizio cambia col tempo e spesso il giudizio stesso finisce per non avere alcuno valore.

La regola secondo me è: quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c'è più speranza. È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all'erta. (da La fine è il mio inizio)

La Storia non esiste. Il passato è solo uno strumento del presente e come tale è raccontato e semplificato per servire gli interessi di oggi. (da Buonanotte sig. Lenin).

L'inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un'illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c'è progresso. Non c'è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono. (da La fine è il mio inizio).

L'unico vero maestro non è in nessuna foresta, in nessuna capanna, in nessuna caverna di ghiaccio dell'Himalaya… È dentro di noi! (citato in Dentro di noi, Parlano i lettori di Tiziano Terzani –TEA, a cura di A. Bortolotti e M. De Martino.

Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l'amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente la dove si è: basta scavare. (da Un indovino mi disse).

Una strada c'è nella vita. La cosa buffa è che te ne accorgi solo quando è finita. Ti volti indietro e dici "oh, guarda, c'è un filo". Quando vivi non lo vedi il filo, eppure c'è. Perché tutte le decisioni che prendi, tutte le scelte che fai sono determinate, si crede, dal libero arbitrio, ma anche questa è una balla. Sono determinate da qualcosa dentro di te che è innanzitutto il tuo istinto, e poi da qualcosa che gli indiani chiamano il karma accumulato fino ad allora. (da La fine è il mio inizio)
Quando la religione diventa un grande potere all'interno dello Stato, lo Stato di per sé perde potere sui suoi cittadini. (da Buonanotte sig. Lenin).

Vivo ora, qui, con la sensazione che l'universo è straordinario, che niente ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra. (da Un altro giro di giostra).

Oggi l'economia è fatta, per costringere tanta gente, a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose per lo più inutili, che altri lavorano a ritmi spaventosi, per poter comprare, perché questo è ciò che da soldi alle società multinazionali, alle grandi aziende, ma non dà felicità alla gente. Io trovo che c'è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola felice, ed è contento, accontentarsi, uno che si accontenta è un uomo felice. (da Anam, il senzanome, 2004).

Ho scoperto prestissimo che i migliori compagni di viaggio sono i libri: parlano quando si ha bisogno, tacciono quando si vuole silenzio. Fanno compagnia senza essere invadenti. Danno moltissimo, senza chiedere nulla. (da "Un indovino mi disse")

Una perla del Dalai Lama

".... La religione è utile, ma non indispensabile. L'importanza è raggiungere lo scopo, che è quello dell'illuminazione, della verità. La religione non deve mai chidersi nel dogma. Per questo dobbiamo essere grati alla scienza, a tutti coloro che ci aiutano a spiegare la realtà. Più religioni sono meglio di una religione unica, assoluta. Ciascuna ha i suoi metodi, le sue tecniche. C'è chi prega in piedi, chi sdraiato, chi medita. E chi invece non fa nulla di tutto questo, ma è comunque una brava persona. Dobbiamo avere rispetto per tutti i credenti della varie religioni, ma anche per i non credenti. La maggior parte delle gente, oggi, è su posizioni agnostiche. E non ha tutti i torti, visto che le religioni hanno fallito il loro compito. Forse è giunto il momento di riconoscere che valori come tolleranza, compassione, perdono sono valori umani, non religiosi...." L'Espresso 19 novembre 2009

Terre des Hommes per i bambini di Bogotà

Giovedì 19 novembre è la Giornata Mondiale per la prevenzione dell'abuso sull'infanzia. La violenza a danno dei minori è un’emergenza globale che riguarda indistintamente qualsiasi strato sociale e ogni paese del mondo, comprese le nazioni ricche e l’Italia. Sembra infatti che un terribile fil rouge leghi la triste condizione dei bambini lavoratori, quelli vittime di traffico, le baby prostitute e le bambine costrette a sposarsi anche prima dei 12 anni, i bambini che vivono in zone di guerra o costretti a combattere, i piccoli sfollati a causa di catastrofi naturali ai bimbi vittime di violenza domestica e di abuso sessuale. Terre des Hommes opera da 50 anni per cancellare da questo mondo la violenza sui bambini. Per questa ricorrenza ha lanciato la Campagna del Fiocco Giallo: i siti web si colorano di giallo per destare l'attenzione dei navigatori e ribadire un chiaro “IO proteggo i bambini, SI’ alla prevenzione contro gli abusi”. Puoi sostenere direttamente questa campagna fino al 22 novembre donando 2 euro con un SMS al 48543 (da cellulari TIM, Vodafone, Wind, Tre e da rete fissa Telecom Italia). Questa donazione si trasformerà in un'azione concreta in aiuto dei bambini vittima di violenza, i fondi così raccolti saranno destinati a finanziare i progetti di lotta e prevenzione alla violenza sui bambini e, in particolare, le attività della “Casona”, il Centro di assistenza alle vittime di tortura di Terre des hommes Italia a Bogotà, unica struttura nel suo genere esistente in Colombia. Dal 2002 ad oggi ha soccorso oltre 4.000 persone, principalmente desplazados (profughi, sfollati interni), molti dei quali bambini. I pazienti vengono trattati con terapie olistiche di lungo periodo per poter riacquistare il proprio equilibrio e la fiducia nel futuro e nelle altre persone.

Terre des hommes (TDH) Italia onlus è una organizzazione non governativa che si occupa di aiuto diretto all'infanzia in difficoltà nei Paesi in via di sviluppo, senza discriminazioni di ordine politico, etnico o religioso. Nata nel 1989 e diventata fondazione nel 1994, TDH Italia oggi è presente in 22 paesi di tre continenti con quasi 90 progetti di aiuto umanitario d’emergenza e di cooperazione internazionale allo sviluppo. TDH Italia fa parte della Terre des hommes International Federation (TDHIF), lavora in partnership con ECHO ed è accreditata presso l’Unione Europea e l’ONU. Nel 2010 il movimento Terre des hommes fondato in Svizzera da Edmond Kaiser compirà i suoi primi 50 anni.

Settimana internazionale del turismo responsabile Torino, 7-12 dicembre 2009

CISV e AITR organizzano la “settimana internazionale del turismo responsabile”, che si articolerà intorno a 4 appuntamenti principali con il seguente programma:
- Da lunedì 7 a giovedì 10 dicembre si terrà un corso internazionale di formazione che rientra nelle azioni del progetto di Educazione allo Sviluppo TRES “Tourisme responsable instrument de lutte contre la pauvreté”, cofinanziato dall’Unione Europea. Parteciperanno al corso i partner del Sud del mondo, alcune ONG europee, operatori di cooperazione decentrata degli Enti Locali e membri di associazioni di migranti.
- Durante la giornata di giovedì 10 dicembre si terrà inoltre il corso nazionale del progetto EARTH (European Alliance on Responsible Tourism and Hospitality), rivolto ai tour operator dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR), che avrà come tema centrale la certificazione del turismo responsabile.
- Nella giornata successiva di venerdì 11 dicembre si svolgerà un convegno internazionale dal titolo “Turismo e Lotta contro la Povertà – esperienze internazionali a confronto” che rientra nelle azioni del progetto di Educazione allo Sviluppo TRES “Tourisme responsable instrument de lutte contre la pauvreté”, cofinanziato dall’Unione Europea. Sono previste tre sessioni di lavoro, la prima dedicata al confronto tra gli attori della cooperazione internazionale sul tema del turismo come strumento di lotta alla povertà; la seconda dedicata al contributo sul tema delle Università; la terza al tema dei criteri di qualità nei viaggi di turismo responsabile.
Iniziativa realizzata nel quadro delle attività del Progetto co-finanziato dalla Commissione Europea « Tourisme responsable
instrument de lutte contre la pauvreté » (ONG-ED/2007/136-826/366)
Gli obiettivi del corso di formazione e del convegno consistono principalmente nel:
 Rafforzare la rete di scambio di buone pratiche tra i partner del progetto
 Recepire e valorizzare il punto di vista dei partner del sud sugli indicatori di qualità dei progetti di turismo responsabile
 Sensibilizzare i partecipanti al ruolo dei migranti nel cosviluppo, in particolare nel settore del turismo responsabile
 Sensibilizzare gli attori della cooperazione decentrata alla necessità di elaborare linee guida per i progetti di turismo responsabile
Il Forum Italiano del Turismo Responsabile, promosso da AITR, chiuderà i lavori sabato 12 dicembre con un workshop, l’ incontro tra i tour operator di AITR e i partner del Sud del mondo, e l’annuale assemblea dell’associazione.

domenica 22 novembre 2009

VADEMECUM PER UN TURISMO RESPONSABILE A SOCOTRA

Entrate nella danza cosmica della Natura e lasciate che vi guidi alla scoperta di un mondo selvaggio e dimenticato dal tempo. Benvenuti a Socotra e Buon Viaggio di Gabriella Cristina

Cosa serve? Spirito di adattamento e flessibilità. Non state partendo per un viaggio all inclusive ma andrete alla scoperta di uno dei pochi luoghi ancora selvaggi ed incontaminati. Il turismo a Socotra esiste solo da una decina d’anni e la ricezione turistica è ancora molto spartana ma questo aspetto contribuisce a rendere il Viaggio unico. L’imprevisto fa parte dell’avventura accettatelo con serenità e buon umore.

Rispetto per la cultura e la religione. Siete ospiti di un paese islamico pertanto importante rispettare le loro tradizioni millenarie e tenere un comportamento educato e responsabile. L’isola appartiene alla sua gente. Noi siamo gli ospiti.

Rispetto per l’ambiente. L’eco sistema dell’Isola di Socotra è molto fragile e richiede la massima attenzione e responsabilità. Non portate via dall’isola le sue ricchezze naturali, coralli, conchiglie, semi, fiori. Fotografate tutto quello che vi piace e lasciate dietro di voi solo le vostre orme.

Abbigliamento consigliato. Vestiti comodi e leggeri, per le donne pantaloni o gonne lunghe e magliette con le maniche lunghe almeno per le visite ai villaggi e l’incontro con i bambini. Un pareo o un foulard per coprire il capo è consigliabile. Sulle spiagge si può tranquillamente indossare il costume ma all’interno dei campeggi è raccomandabile coprirsi. Portate poca roba, con qualche dollaro potrete acquistare al mercato vestiti tradizionali sia per uomini che per le donne adatti a tutte le situazioni di viaggio. E darete un piccolo contributo all’economia locale. Una felpa o un pile e un giubbotto impermeabile. Dipende dalla stagione, a Socotra potrebbe servirvi, è indispensabile invece per Sanaà che è a più di 2000 metri di altezza. Sandali e scarpe comode per brevi camminate oppure scarponcini se avete in programma un trekking di 2 o 3 giorni. Ciabatte per la doccia e asciugamani leggeri.

Varie:
Una torcia, è molto utile quella da minatore da indossare sulla fronte. Creme solari ad alta protezione. Occhiali da sole e cappello. Un coltellino svizzero Maschera e boccaglio per chi ama lo snorkelling. Nelle aree protette vengono fornite ma non sempre sono sufficienti. Un mutino ma solo se siete freddolosi e viaggiate in ottobre, novembre e dicembre. Portate saponi e shampoo ecologici tipo il sapone di Marsiglia e riportate il vuoto a casa. Medicinali da viaggio: quelli cui siete abituati. Non serve nessuna vaccinazione, seguite le solite norme igieniche. Carta igienica e salviette umidificate sono acquistabili anche sul posto ma ricordatevi che queste ultime non sono bio-degradabili quindi non abbandonatele nell’ambiente e buttate tutto nei sacchetti dell’immondizia forniti dalle vostre guide. Adattatore di corrente: non è indispensabile in genere le prese si adattano alle nostre spine a due pins ma se avete l’adattatore a 3 lamelle, tipo inglese mettetelo in valigia. Prevedete una buona scorta di batterie per la macchina fotografica e la video camera. E’ possibile utilizzare il trasformatore che qualche autista possiede ma l’utilizzo è limitato. Non c’è elettricità nei campeggi. Utilizzate bagagli comodi e morbidi, non troppo ingombranti. Saranno per tutto il tempo buttati su e giù dalle jeep quindi non portate la valigia cui tenete particolarmente. Ricordate che il bagaglio dovrà entrare nelle tende igloo insieme a voi. Attrezzatura da campeggio è fornita totalmente dall’agenzia locale e comprende: materassino di gomma piuma, lenzuola e federe, cuscino e coperta se serve. Valuta: è consigliabile oltre che più conveniente portare Dollari americani (attenzione non devono essere anteriori al 2000) l’euro ha un valore molto variabile e il cambio potrebbe essere sfavorevole.

Raccomandazioni:
Non date assolutamente soldi ai bambini! Se volete regalare penne e quaderni consegnate tutto alla guida che farà una sosta alla scuola più vicina e il materiale scolastico verrà dato all’insegnante. Se portate con voi vestiti usati e giochi per i bimbi (evitate la plastica) fate in modo che sia sempre la guida locale a consegnarli. Non fotografate le donne! E prima di fare foto ai bambini chiedete il loro permesso. I fumatori dovranno avere cura di non gettare i mozziconi in giro. Se viaggiate in coppia evitate le effusioni, ma anche le litigate, davanti alla gente del luogo, non rientrano nella loro cultura e sono considerate mancanza di rispetto per chi assiste.

Lasciate a casa:
· Lo stress e i ritmi della vita quotidiana.
· Il cellulare. A Socotra il nostro sistema non funziona, potete però utilizzarlo in Yemen. Se dovete contattare casa c’è un International Phone Call e un Internet cafè. Oppure chiedete alla vostra guida di poter utilizzare le carte prepagate su di un loro cellulare.
· L’orologio. Non serve ci si alza all’alba e si va a dormire dopo il tramonto.

Riapre la via della seta di Federico Rampini

L'antichissimo percorso tra Oriente e Occidente diventa l'asse strategico tra Cina e India, le nuove locomotive planetarie E' l´unico collegamento naturale fra la Cina e l´India, via terra. È uno dei passi di montagna che per secoli videro transitare le carovane lungo le Vie della Seta, le piste dei mercanti che dalla Cina raggiungevano Damasco e la Roma imperiale, percorse poi da Marco Polo per raggiungere l´impero del Kublai Khan. Le Vie della Seta sono tornate ad essere unite da pochi anni: da quando i governi di Pechino e New Delhi hanno riaperto il passo Nathula, a 4.500 metri sull´Himalaya, quasi a metà strada fra la capitale del Tibet (Lhasa) e il porto indiano di Calcutta, circa 500 km di distanza ciascuno. È un varco che era rimasto chiuso dalla guerra sino-indiana del 1962, poi usato solo per un servizio postale settimanale a dorso di mulo che consegnava poche lettere di pastori tibetani sui due lati del confine. La riapertura del Nathula è il primo tassello di progetti grandiosi: la costruzione di una rete ferroviaria che estenda il nuovo treno fra la Cina e il Tibet, prolungandone il servizio fino a Delhi e Calcutta; più valanghe di asfalto da aggiungere al gigantesco network di autostrade (141mila chilometri) in costruzione fra Cina, India, Vietnam, Thailandia, con sbocchi fino all´Asia centrale e l´Europa. È il disegno annunciato dal premier cinese Wen Jiabao quando profetizzò che Cina e India costruiranno insieme «il secolo asiatico». Una visione avveniristica e al tempo stesso un ritorno al passato: nel 1750 questi due paesi rappresentavano insieme il 57 per cento della produzione manifatturiera mondiale. Ai tempi di Marco Polo la Via della Seta conosceva varie biforcazioni, alcune più meridionali come quella che traversava l´Himalaya all´altezza di Katmandu nel Nepal. Il passo Nathula però divenne centrale in una sfida geostrategica cruciale dell´Ottocento e fino ai primi del Novecento: la contesa fra l´Impero britannico e la Russia zarista per estendere le proprie sfere di influenza verso l´Asia centrale e la Cina. È quello che fu definito il Grande Gioco. Il mio punto di partenza preferito per esplorare le diramazioni delle Vie della Seta è la città di Kashi nello Xinjiang, la più vasta regione della Repubblica popolare cinese, cinque volte la dimensione dell´Italia, e il centro di una tenace resistenza islamica contro Pechino. Un´altra Cina: lì il profumo aspro del montone alla griglia si mescola con quello dei "nan", focacce alla cipolla, dei datteri e dei croccanti dolci di nocciole. Nella ressa del bazaar si aggirano maestosi anziani col caftano, lunghe barbe a punta da califfo e il fez in testa. Qualche donna è completamente velata con il burkha che le copre il viso. Sulle bancarelle a fianco ai tappeti di preghiera, ai drappi sgargianti di pashmina e ai pugnali d´argento intarsiato, è in vendita il Corano. Le orchestre di strada con mandolini e tamburelli diffondono melodie arabesche. I patio con le tende e le verande colorate delle case, i minareti, le facce mediorientali e mediterranee: potrebbe essere Istanbul o Marrakech. Magnificata da Marco Polo nel 1271, città-oasi in mezzo al deserto del Taklamakan, tappa obbligata che per duemila anni ha visto scorrere con le carovane di cammelli il commercio fra Oriente e Occidente, Kashi è molto più vicina a Kabul e Islamabad che a Pechino, e non solo in senso figurato: anche in chilometri. Per arrivarci dalla capitale ci vogliono otto ore di volo verso ovest con scalo nel capoluogo dello Xinjiang, Urumqi. A differenza di Urumqi, demograficamente più "sinizzata" e invasa da grattacieli che la rendono un po´ simile ad altre città della Cina, la fisionomia di Kashi resiste inconfondibile. Il 70 per cento degli abitanti sono uiguri, orgogliosa etnìa turcomanna e musulmana. Neppure sui nomi vogliono piegarsi, per loro Kashi resta Kashgar, lo Xinjiang è Turkestan orientale. Visti da Pechino sono un piccolo popolo, ormai in minoranza perfino a casa loro: appena 8 milioni di uiguri su 20 milioni di abitanti della regione, e circondati da 1,3 miliardi di cinesi. Ma a differenza dei tibetani, oltre i confini della Repubblica popolare questi sono attorniati da "fratelli". Lungo i 5.600 km di frontiera esterna lo Xinjiang confina con otto nazioni di cui cinque di religione musulmana (Pakistan, Afghanistan, Tajikistan, Kyrgyztan, Kazakhstan) e popolati a loro volta da minoranze turco-uigure. La titanica statua in granito di Mao Zedong che domina la piazza centrale di Kashi - uno dei pochi monumenti di queste dimensioni in tutta la Cina - ricorda la partita che si gioca al confine tra la superpotenza asiatica e l´Islam. La tensione è esplosa con ferocia quest´estate: prima gli attacchi degli uiguri ai cinesi han, poi le rappresaglie degli "immigrati-padroni", infine l´intervento massiccio della polizia e dell´esercito. Quando sono riuscito a penetrarvi a luglio, ho trovato Kashi in stato d´assedio, militarizzata. È una ragione in più per visitarla, e andare a vedere nel cuore di un luogo così antico le contraddizioni moderne della Cina.

venerdì 20 novembre 2009

Sri Lanka Gennaio 2009

Sabato 3 gennaio 2009
Ci siamo un po’ ripresi dall’impatto, come sempre duro, con questo pezzo di oriente che somiglia molto all’India, ma che ha tutta la sua forte identità Eppoi ha anche la sua dura e violenta guerra, tra la sua gente. E’ stato più difficile degli altri anni. Questa terra, di una bellezza indicibile con la sua gente che inganna e sorride, riserva sempre una sorpresa nel suo primo contatto. La bellezza del cielo tropicale non ha niente da invidiare ai nostri scorci stellati mediterranei. Una sua struggente e segreta bellezza, quasi ci conduce a quel punto in “cui l’anima ti muore dentro”.
Abbiamo incontrato Stefano che insieme a noi lavora sul Vacation Center di Unawatuna, una delle 13 spiagge più belle del mondo, oggi devastata sull’altare del turismo, ma che, anch’essa conserva la sua avvolgente bellezza. Il Vacation Center è utilizzato dai bambini e dai ragazzi come doposcuola. L’associazione di Stefano propone e coordina molte attività. Noi abbiamo sostenuto l’acquisto di tavoli, sedie e attrezzatura per le aule didattiche. Ho sentito anche Lorenzo, della casa famiglia di Wahaladuha che accoglie bambine orfane e abusate. Abbiamo sostenuto l’ampliamento delle struttura e sostenuto le attività della vicina Montessori (così chiamano qui le scuole materne; in corso con loro abbiamo anche tre adozioni di bambine ospiti.
Abbiamo visto anche Amal. Con lui abbiamo costruito tre case, per il pescatore, il muratore Bandula e per Niluka che vive con le sue tre sorelle e 11 bambini: anche loro hanno finalmente una vera casa. Andremo a incontrare tutti lunedì e vedremo due famiglie alle quali proveremo a costruire una casa. Non so se riusciremo perché dopo lo tsunami i prezzi sono lievitati e anche la guerra ha fatto aumentare i listini dei generi di prima necessità, come il riso.
Tante storie ancora, le più belle quelle delle famiglie alle quali abbiamo cambiato la vita, con la loro nuova casa, la nuova singer e la luce (sì, l’energia elettrica che prima non avevano). Scriverà di loro dopo la nostra visita di lunedì.
La guerra qui è lontana, anche loro (i cingalesi) la vivono alla televisione. L’evento di ieri è comunque un fatto storico. L’esercito ha preso la capitale delle LTE. Tutti qui li definiscono terroristi, ma a sentire le versioni di Stefano e di Lorenzo, il regime del nuovo presidente, più corrotto degli altri ha deciso di usare la mano pesante e vuole sterminare ogni resistenza dei Tamil e spazzare per sempre le loro rivendicazioni di autonomia. Sono riusciti nell’operazione di propaganda. Infatti qui non si parla di una minoranza che vuole veder riconosciuti i propri diritti e rivendica autonomia per le proprie terre, qui tutti parlano di terroristi. Il regime ha mediaticamente equiparato l’LTE al fornite del terrorismo mondiale e così trova sostegno da parte delle grandi potenze e i diritti umani passano in secondo ordine. E’ vero che in oltre 20 anni di guerra civile i massacri si contano da entrambe le parti. Violenze, uccisioni di massa, campi minati e vittime innocenti, e poi la guerra dei bambini, qui come da nessun’altra parte del mondo utilizzati come soldati (dalle Tigri). I ribelli hanno risposto con due attentati a Colombo. Amal spera che il governo entro 4 mesi metta fine alla guerra sterminando finalmente i ribelli per creare nel paese una situazione favorevole alla ripresa del turismo.

Qui la guerra infuria, e come succede in ogni angolo del globo, chi sta male soffrirà ancora di più. I tamil sono confinati e devastati nella parte orientale e nord-orientale dell’isola. La decisione del governo e della corrotta classe al potere è quella di usare lo stile nazista: distruzione di massa. Bombardamenti a tappeto nelle zone tamil e così hanno preso Kilinochi, capitale dell’inistetistente stato del LTD. I cingalesi, tutti, anche quelli un po’ più normali come Amal, considerano questo un bene per il loro paese, finalmente la guerra cessarà anche se al prezzo della deportazione e dello sterminio dei loro conterranei. Ad essi non vengono riconosciuti gli stessi diritti della maggioranza di etnia sinhala. U n tempo i tamil rappresentano, anche se minoranza della popolazione, la borghesia al servizio della madrepatria britannica, istruiti, scaltri e pronti alla collaborazione e al fare; tutto il contrario dei cingalesi, apatici, svogliati, creduloni e con poca voglia di lavorare. La fine della dominazione coloniale ha consegnato l’isola delle spezie in mano alla maggioranza buddista ed è stato il caos. Le gelosie e le presunte ingiustizie sopportate per anni sono emerse con violenza e con forza, sono iniziati i primi massacri e le prime vendette.
Ecco che si creano le condizioni per la genesi della questione separatista, i tamil chiedono che le loro zone ricevano il riconoscimento dell’autonomia e che qui loro possano amministrare le loro genti con diverse regole e tradizioni, come è nella realtà: sono due popoli diversi, hanno un patrimonio culturale, una lingua molto molto diversa, una religione diversa, ma l’equilbrio non alberga in nessuno dei cuori e trionfano odio e violenza.

Ecco che arriva il paese, questo paese. Ogni angolo del mondo è pieno di amore e di bellezza. Ma nella continua alternanza del giorno e della notte, della luce e del buio, esistono anche i lati oscuri e la malvagità, la povertà e la miseria, materiale e morale. E’ in questo contesto che si inserisce quel sentimento di incertezza e di dubbio. Ma non dubbio come paura e insicurezza, credo, dubbio come il grande ventaglio delle opportunità da scegliere, come il groviglio di possibilità che abbiamo di fronte, dove prima di ogni nostra azione niente è certo e sicuro, solo dopo il gesto o la decisioni arriva una certezza che è quella dell’atto compiuto che può essere giusto, o sbagliato e questo dipende dall’armonia, da quell’equilibrio individuale che può divenire collettivo. Ma insomma il paese, o forse sarebbe meglio parlare del mondo. Ma perché questo paese, per ora questa gente. Per caso o per il nostro karma. Insomma ora siamo qui e le nostre scelte influiscono anche su coloro che ci stanno vicini. Abbiamo il potere spaventoso di cambiare la vita, o meglio di rendere la vita migliore a Bandu o al pescatore, con tutti i rischi annessi e connessi. Possiamo insieme a Lorenzo far sorridere le bambine di Mihiri Gedere ed assicurare loro un futuro è una vita tranquilla.
MG

Manifesto contro la Televisione

«Manifesto contro la Televisione»
Un libro che smaschera i pericoli della televisione: onde elettromagnetiche, messaggi subliminali, pubblicità ingannevole, programmi spazzatura, propaganda mediatica, il business degli sms, e molto altro ancora.
La televisione ha un unico scopo: condizionare la mente delle masse per guidarne il pensiero...
Il Grande Fratello teorizzato da George Orwell è qui, oggi!
Marcello Pamio, Il Nuovo Mondo edizioni, pagine 160, ottobre 2004

Ci hanno rubato anche l’acqua!

di Marcello Pamio - 20 novembre 2009
Mercoledì 4 novembre scorso, dopo solo due giorni di discussione, è stato approvato il decreto-legge 25 settembre 2009, nr.135: “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee”, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 223.
Il voto in Senato è la conclusione di un iter parlamentare che dura da 2 anni, infatti il governo Berlusconi, con l’articolo 23 bis della legge 133/2008, aveva provveduto a regolamentare la gestione del servizio idrico integrato che prevedeva, in via ordinaria, il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali a imprenditori o società, mediante il rinvio a gara, entro il 31 dicembre 2010.[1]

Quella legge è stata approvata il 6 agosto 2008, mentre l’Italia era casualmente in vacanza!
Un anno dopo, precisamente il 9 settembre 2009, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge (l’accordo Fitto- Calderoli), il cui articolo 15, modificando l’articolo 23 bis, muove passi ancora più decisivi verso la privatizzazione dei servizi idrici.[2] Il Pd, che è sempre stato piuttosto favorevole alla privatizzazione dell’acqua, ha proposto nella persona del senatore Bubbico, un emendamento compromesso: l’acqua potrebbe essere gestita dai privati, ma la proprietà resterebbe pubblica…[3]

Tale vergognoso decreto, passato con la fiducia ieri, da effettivamente il via libera alla privatizzazione dei servizi pubblici locali.
”Leggendo (neanche troppo attentamente) la “causale” del ddl, ci si accorge di essere di fronte all’ennesima “rapina di Stato” che, sotto il vessillo della “privatizzazione forzata” imposta dalla Ue, in realtà nasconde un bisogno di energie economiche per far quadrare i debiti con l’Europa”. [4]
“Le disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari... si traducono in bisogno di denaro per il governo italiano. Nessun diktat europeo impone la privatizzazione dell’acqua, anzi...”
”Risoluzione europea 11 marzo 2004, “Strategia per il mercato interno, priorità 2003- 2006” , al paragrafo 5 cita: “Essendo l’acqua un bene comune dell’umanità, la gestione delle risorse idriche non deve essere assoggettata alle norme del mercato interno”.[5]

Le stesse norme verranno ribadite nel IV° forum mondiale sull’acqua nella Risoluzione europea 15 marzo 2006, che al paragrafo 1 dichiara: “l’acqua è un bene comune dell’umanità e come tale l’accesso all’acqua costituisce un diritto fondamentale della persona umana; chiede che siano esplicati tutti gli sforzi necessari a garantire l’accesso all’acqua alle popolazioni più povere entro il 2015” .

L’emendamento che prevede l’affidamento della gestione dei servizi idrici locali ai privati, è il 15.504 e vede la firma del senatore piddino Bubbico.
Malgrado Bubbico in Senato abbia osannato il successo del Pd nella firma del ddl, sostenendo: “Grazie a un emendamento del Pd è stata scongiurata la privatizzazione dell’acqua, bene indispensabile, di primaria importanza per tutti i cittadini”, leggendo lo stesso emendamento si scopre la “truffa”. “Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato [...] devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche [...]”.

Che in soldoni vuol dire: servizio autonomo affidato ai privati e proprietà pubblica della risorsa, ossia l'acqua. L'emendamento 15.504, un provvedimento quindi di privatizzazione dei servizi pubblici, avallato dal Pd, è stato respinto solo dall'Italia dei Valori e da tre senatori del Partito democratico (Marinaro, Zanda e Nerozzi), voti favorevoli di Udc, Pdl, Lega Nord e Pd, in questa "originale coalizione istituzionale" fautrice del nuovo principio: l'acqua un bene privato del mercato.
I partiti hanno criminalmente reso l’acqua un bene privato!

Come vedete, gli avvoltoi, indipendentemente dal colore partitico, rimangono sempre e solo degli avvoltoi, stipendiati, in questo caso, direttamente dalla lobbies delle bollicine.
Il mercato dell’acqua in Italia è un mercato molto interessante, per via degli 11 miliardi di litri di acqua minerale bevuti ogni anno. Stiamo parlando di circa 5 miliardi di euro di fatturato per i soliti noti.
Con simili numeri è possibile corrompere e/o convincere chiunque.
Il rapporto dei prezzi tra acqua minerale in bottiglia e “l’acqua del sindaco” (da ieri non più del primo cittadino, ma dei privati) ha dell’incredibile: un litro di acqua minerale costa mediamente 0,35 - 0,40 euro, contro 0,001 euro dell'acqua del rubinetto.

La grande truffa dell’acqua in bottiglia
(tratto da www.trekking.it/it/articoli/La-grande-truffa-dell'acqua-minerale_2503.html )

Fino a qualche anno fa, le “acque minerali” dovevano comunque sgorgare da fonti certificate, monitorate, e con caratteristiche dell’acqua almeno particolari rispetto alla semplice acqua potabile.
Poco importa se, anche in questo caso, si potrebbe configurare quantomeno l’appropriazione discutibile, ancorchè tollerata dalle normative, di un bene che appartiene a tutti i cittadini, poichè le acque sotterranee fanno parte del demanio pubblico.

Le aziende private che sfruttano le falde acquifere potabili, infatti, pagano alla collettività un irrisorio “canone di coltivazione”, a fronte della concessione, spesso permanente, di un bene pubblico. In pratica, gli amministratori che dovrebbero gestire, e non svendere il patrimonio collettivo, lo hanno invece“regalato” alla speculazione delle multinazionali.
Se nella legislazione italiana “il quadro normativo stabilisce che le risorse idrominerali sono un bene pubblico, fanno parte del patrimonio indisponibile delle regioni e il loro uso deve essere improntato all'interesse pubblico”, non si capisce come sia possibile che in calce alle concessioni “regalate” ad alcuni famosi marchi di acqua minerale figuri la scritta “perpetua”: significa che alcune multinazionali accumulano miliardi vendendo l'acqua di tutti, per sempre, come la San Pellegrino (Nestlé), che fino al 2002 pagava 5 milioni e 270 mila lire all'anno per la concessione; in rapporto, quasi stupiscono i 33 milioni e 464.500 lire (sempre dati 2002) sborsati per imbottigliare la Levissima (ancora Nestlé).

Sempre Nestlè (che vende nel mondo 19 miliardi di litri d’acqua), ha in concessione lo sfruttamento delle fonti di Pejo, in Trentino, da cui estrae e imbottiglia 110 milioni di litri/anno (con un ricavo di circa 35 milioni di euro/anno), e attualmente paga al Comune di Pejo una tassa di concessione di 30.000 euro l’anno.
Oggi, almeno sulla carta, le aziende che sfruttano l’acqua sono soggette a una minima tassa di 0,0005 euro al litro, ma solo sul prodotto imbottigliato; tanto per fare un esempio, in Lombardia (la regione più ricca di fonti e sorgenti) vengono imbottigliati 3 miliardi di litri d’acqua, ma altri 7 miliardi vengono sprecati nelle fasi di lavorazione.

La truffa, però, è ben altra, e sconvolgente: oggi, spesso, nelle bottiglie di plastica in vendita sugli scaffali dei supermercati, o sui tavoli di pizzerie e ristoranti, si trova “acqua microfiltrata”, pagata a prezzo dell’acqua minerale, ma altro non è che acqua del rubinetto, la stessa che esce da quelli delle nostre case, messa in bottiglia e ricostituita con l'aggiunta di anidride carbonica e sali minerali.
Nel mondo, l'azienda leader nella vendita di “acqua del rubinetto” è la Coca Cola , che la imbottiglia soprattutto per i paesi del terzo mondo, privati dell'acqua come bene comune.

Con risvolti curiosi, se non fossero tragici: l'acqua Dasani (Coca-Cola), prelevata dall’acquedotto pubblico della contea di Kent e commercializzata in Gran Bretagna, con un aumento del prezzo di 3.166 volte rispetto al costo di origine, è stata ritirata dal mercato perchè, nonostante uscisse pura dal rubinetto, come certificato da numerose perizie, una volta imbottigliata diventava potenzialmente pericolosa perchè addizionata con una elevata percentuale di bromato, nota sostanza cancerogena.
Campagna nazionale "SALVA L’ACQUA" del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
www.acquabenecomune.org
Testo ufficiale del decreto - Parlamento, www.parlamento.it/parlam/leggi/decreti/09135d.htm
Berlino 1989-2009. Dopo la scorpacciata di festeggiamenti per la caduta del Muro. Ecco qualche consiglio per scoprire la faccia nascosta della capitale tedesca. Tra squatter, graffiti e case occupate. Guidati da una strana bambina.
Lucy è un’adorabile bimba dai capelli cotonati che indossa vestitini rosa confetto. Ha un hobby molto particolare: è sempre alla ricerca di modi fantasiosi per uccidere il suo gatto. Lucy, ovviamente, non è una bimba vera, ma un personaggio creato dall’artista tedesco “El Bocho” prendendo spunto da un cartone animato molto in voga nella Cecoslovacchia degli anni Settanta. Una silhouette di carta appiccicata su muri e ponti della ferrovia ma che può trasformarsi in una buona compagna di viaggio per chi vuole scoprire la faccia meno turistica di Berlino. Quella di cui non parlano né i libri di storia né le guide tradizionali.
A Berlino si arriva da Est, dall’areoporto, attraversando i casermoni di edilizia popolare socialista che accompagnano chi viaggia in treno fino all’arrivo in Alexanderplatz. Per i berlinesi, semplicemente Alex. Inutile girarci attorno: il look comunista non le dona, vale la pena attraversarla solo per incontrare spettacoli allestiti da artisti e ballerini di strada. O per addentare un currywurst venduto da stoici uomini-griglia all’uscita della metropolitana. Meglio puntare subito allo Scheunenviertel, il vecchio quartiere ebraico che nel Dopoguerra venne inglobato nel settore sovietico. La riunificazione e la successiva ricostruzione hanno portato griffe internazionali, ristoranti etnici e raffinati lounge bar, ma cercando pazientemente si possono scoprire vecchi cortili su cui architetti di grido non hanno messo mano. Qui tutto sembra essere rimasto fermo a vent’anni fa: mattoni anneriti dal tempo, strati di graffiti e carta colorata che si alternano sui muri.
Se avete poco tempo a disposizione, però, puntate direttamente in Oranienburgstrasse: a poca distanza dalla cupola della nuova sinagoga, vedrete il Kunsthaus Tacheles: un’ex galleria commerciale danneggiata dai bombardamenti alleati durante la Seconda guerra mondiale. Il governo della Ddr ne ordinò la demolizione che però non venne mai effettuata. Così, quando cadde il Muro, il Tacheles, in tutto il suo splendore, diventò il covo perfetto per decine di artisti che lo trasformarono in un luogo a metà strada tra il centro sociale e la galleria d’arte permanente.
Anche se ha perso parte della sua aura anarchica, il Tacheles resta un caotico alveare in cui scoprire sculture realizzate con materiali di scarto e curiosi collages con robuste “Casalinghe disperate” di epoca sovietica. Tra un atelier e l’altro 
-qui lavorano 37 giovani- ecco lassù, sulla rampa delle scale, il gatto striato che la piccola Lucy ha ficcato dentro un forno a microonde.
Impossibile non fare i conti con la storia. Il Muro non c’è più, ma la sua presenza resta comunque ingombrante. Tanto per farvi un’idea, provate a fare questo gioco: guardatevi attorno e cercate di capire se vi trovate a Est o a Ovest. Imponenti casermoni squadrati sono il segno che, probabilmente, siete a Est. Lo stesso vale per le nuove architetture: (quasi) tutto ciò che è scintillante vetro-cemento è stato costruito sfruttando i vuoti della “striscia della morte” che abbracciava il Muro nel settore orientale della città. Infine tenete d’occhio i semafori: se dalla luce rossa vi occhieggia un ampelmann, l’omino con il cappello, probabilmente siete a Est. Ma nemmeno questa regola è infallibile: l’omino piace talmente tanto che lo stanno esportando anche in altri quartieri. Per il momento si è guadagnato una sua linea di abbigliamento e compare su borse, tazze, ombrelli, quaderni. Nuovo marchio di fabbrica della città accanto alla porta di Brandeburgo e il Fernsehtrum, la torre della tivù che troneggia in Alexanderplatz (utile punto di riferimento per i turisti sprovvisti di cartina).
Un weekend a Berlino non può dirsi completo senza aver trascorso almeno un pomeriggio (possibilmente sul tardi) a Kreuzberg. Dopo aver attraversato quel che resta del Checkpoint Charlie, vetrina per turisti con bancarelle di improbabili “memorabilia” sovietici, ci si può dirigere a tutta velocità verso la fermata U-bahn Kottbusser tor.
Qui i venditori di currywurst hanno ceduto il passo ai döner kebab e le donne velate passeggiano osservando con disappunto i turisti armati di macchina fotografica. Abbracciato su tre lati dal Muro, Kreuzberg era il quartiere più povero di Berlino Ovest. Vi trovarono casa i gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” di origine turca reclutati per soddisfare il bisogno di manodopera dell’industria e dell’edilizia tedesca durante il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma anche artisti squattrinati, punk, squatter e centinaia di ragazzi provenienti da diversi länder della Repubblica Federale tedesca che si trasferirono nella Berlino demilitarizzata per evitare il servizio militare. Un mix affascinante ma esplosivo: povertà ed emarginazione sociale sono state, per anni, una delle costanti del quartiere.
Non mancano, per fortuna, segnali di speranza. Come testimonia il Fifty faces’ project realizzato da cinque writer professionisti nel 1998. Armati di bombolette spray e della pazienza di un Tiziano, hanno realizzato cinquanta ritratti usando come tela le colonne portanti e le grigie facciate di un palazzo nei pressi di Oranierplatz. Molti dei volti ritratti infatti sono quelli di donne e bambini che realmente vivono nel quartiere.
Tra negozi alimentari turchi e boutique di abbigliamento vintage, Kreuzberg offre decine di bar e locali curiosi dove fermarsi per gustare uno spuntino osservando la folla per le strade. L’alternativa migliore però sarebbe incamminarsi verso la Sprea: seguite l’antico tracciato del Muro, una fila di mattoni incastonati nel cemento, e non potete sbagliare. Attraversate lo Shilling-brücke per approdare a Friedrichshain e godervi un passatempo tutto berlinese: attendere il tramonto sorseggiando una birra sprofondati in una sedia sdraio lungo il fiume.
Piccole oasi come il “Club Maria” o lo “Yaam bar”, animato dalla comunità africana berlinese, però rischiano di scomparire se verrà portato a termine un progetto di riqualificazione urbana noto come “Media spree”: palazzi e cemento che restringeranno l’accesso pubblico al lungofiume. I nuovi progetti visti sulla carta ricordano quanto è cambiata Berlino negli ultimi vent’anni e quanto potrà ancora cambiare. Forse, se tornerete qui tra dieci anni, troverete ancora la piccola Lucy, sempre intenta a dare la caccia al suo gatto. Se cercate bene, sotto un ponte della S-Bahn vicino ad Alexanderplatz, troverete un disegno che la raffigura da grande: con un abitino succinto e l’immancabile gatto.
Ilaria Sesana

Turismo sostenibile

E' tempo di vacanze o di un week end lontano dalla città? Cosa c'è di meglio che trovarsi imbottigliati per ore sulla via del mare, non trovare una spiaggia libera ma solo accessi a pagamento e, infine, ammirare una lunga distesa di opere edilizie costruite a pochi metri dal mare? Per quanto ci riguarda ci siamo pressoché stancati di queste vacanze e siamo andati di persona alla ricerca di soluzioni di turismo sostenibile.

Che cosa è il turismo sostenibile? Detto in breve il turismo sostenibile è la presenza di strutture e servizi turistici realizzati in modo tale da non distruggere o penalizzare il panorama, il mare e l'ambiente. Il turismo sostenibile privilegia l'alloggio dei villeggianti nell'entroterra (almeno due chilometri dal mare) lasciando intatta la costa allo stato naturale. I villeggianti possono raggiungere il mare mediante servizi di navettamento in pulman, in bicicletta e godersi il mare immersi nella natura, senza opere in cemento nelle vicinanze e senza l’eccessiva presenza degli stabilimenti balneari.

Il turismo sostenibile fa risparmiare sulla spesa per le vacanze. Facciamo qualche esempio. Piuttosto che ricercare costosi alloggi a pochi metri dal mare siamo andati alla ricerca di case in affitto nell'entroterra a 4-5 km dal mare. Costano decisamente meno, in genere sono appartamenti altrimenti chiusi posti al secondo piano delle case di proprietà dei cittadini residenti. Alloggiare in una località dell'entroterra offre ai villeggianti quei servizi urbani a cui siamo stati abituati in città (uffici postali, alimentari a basso costo, telefono, negozi ecc.) senza necessità di duplicare queste attività nelle località di mare. Recarsi al mare in auto o in bicicletta immersi nella natura di una strada provinciale, senza traffico e per pochi chilometri, è sicuramente piacevole se la meta di destinazione è una spiaggia libera, poco affollata e con macchia mediterranea alle spalle. Affittare una casa per l'estate nell’entroterra delle località di mare rappresenta una forma reddito per cittadini del luogo favorendo lo sviluppo sostenibile della zona. Un'alternativa all'affitto arriva dall’accoglienza in agriturismo o in campeggi privi di pesanti strutture in cemento, localizzati a distanza sostenibile dalle spiagge.

Volendo fare uno slogan potremmo dire: "scappa al mare, non farti inseguire dalla città". Che senso ha scappare dallo stress urbano poi per ritrovarlo nell'acqua in cui ti immergi? Trovare una spiaggia pulita e proteggerla conviene a tutti.

Il turismo sostenibile è un'opportunità di reddito per i cittadini del luogo. Le spiagge italiane sono una fonte di reddito e un valore economico per tutti. Distruggerle con le speculazioni edilizie o privatizzarle non avvantaggia nessuno. Il turismo sostenibile protegge le spiagge e fornisce un reddito turistico ai cittadini residenti nell'entroterra sia mediante l'affitto degli alloggi privati come residenze estive (es. secondo piano delle case) sia come crescita del giro di affari nell'indotto commerciale (es. negozi, servizi, attività commerciali già presenti nell'entroterra).

Il turismo sostenibile non va contro l’attività edilizia. Con il turismo sostenibile e la crescita della ricchezza distribuita tra le popolazioni residenti aumenterebbe anche la richiesta di nuove costruzioni per migliorare le strutture dell'entroterra senza il rischio di distruggere la bellezza delle coste da cui dipende l'afflusso turistico nella zona. Si chiede semplicemente di evitare la tentazione di costruire sulla costa. E’ inutile e dannoso costruire sulle spiagge o nelle vicinanze mettendo a rischio l’afflusso turistico dell'intera area. Oggi una spiaggia ancora allo stato naturale vale oro ed è fonte di reddito per tutta la comunità locale.

In conclusione, qualsiasi opera in cemento che non rispetti la legge danneggia gli interessi di tutti. Denunciare gli abusi edilizi sulle coste è interesse di tutti i cittadini. Durante i mesi estivi non è necessario prendere l'aereo per farsi un bagno a mare a 7.000 km di distanza da casa. Queste spiagge ancora allo stato naturale esistono anche in Italia. Il meridione italiano è ancora ricco di spiagge da proteggere e da custodire meglio così come si trovano.