domenica 22 novembre 2009

Riapre la via della seta di Federico Rampini

L'antichissimo percorso tra Oriente e Occidente diventa l'asse strategico tra Cina e India, le nuove locomotive planetarie E' l´unico collegamento naturale fra la Cina e l´India, via terra. È uno dei passi di montagna che per secoli videro transitare le carovane lungo le Vie della Seta, le piste dei mercanti che dalla Cina raggiungevano Damasco e la Roma imperiale, percorse poi da Marco Polo per raggiungere l´impero del Kublai Khan. Le Vie della Seta sono tornate ad essere unite da pochi anni: da quando i governi di Pechino e New Delhi hanno riaperto il passo Nathula, a 4.500 metri sull´Himalaya, quasi a metà strada fra la capitale del Tibet (Lhasa) e il porto indiano di Calcutta, circa 500 km di distanza ciascuno. È un varco che era rimasto chiuso dalla guerra sino-indiana del 1962, poi usato solo per un servizio postale settimanale a dorso di mulo che consegnava poche lettere di pastori tibetani sui due lati del confine. La riapertura del Nathula è il primo tassello di progetti grandiosi: la costruzione di una rete ferroviaria che estenda il nuovo treno fra la Cina e il Tibet, prolungandone il servizio fino a Delhi e Calcutta; più valanghe di asfalto da aggiungere al gigantesco network di autostrade (141mila chilometri) in costruzione fra Cina, India, Vietnam, Thailandia, con sbocchi fino all´Asia centrale e l´Europa. È il disegno annunciato dal premier cinese Wen Jiabao quando profetizzò che Cina e India costruiranno insieme «il secolo asiatico». Una visione avveniristica e al tempo stesso un ritorno al passato: nel 1750 questi due paesi rappresentavano insieme il 57 per cento della produzione manifatturiera mondiale. Ai tempi di Marco Polo la Via della Seta conosceva varie biforcazioni, alcune più meridionali come quella che traversava l´Himalaya all´altezza di Katmandu nel Nepal. Il passo Nathula però divenne centrale in una sfida geostrategica cruciale dell´Ottocento e fino ai primi del Novecento: la contesa fra l´Impero britannico e la Russia zarista per estendere le proprie sfere di influenza verso l´Asia centrale e la Cina. È quello che fu definito il Grande Gioco. Il mio punto di partenza preferito per esplorare le diramazioni delle Vie della Seta è la città di Kashi nello Xinjiang, la più vasta regione della Repubblica popolare cinese, cinque volte la dimensione dell´Italia, e il centro di una tenace resistenza islamica contro Pechino. Un´altra Cina: lì il profumo aspro del montone alla griglia si mescola con quello dei "nan", focacce alla cipolla, dei datteri e dei croccanti dolci di nocciole. Nella ressa del bazaar si aggirano maestosi anziani col caftano, lunghe barbe a punta da califfo e il fez in testa. Qualche donna è completamente velata con il burkha che le copre il viso. Sulle bancarelle a fianco ai tappeti di preghiera, ai drappi sgargianti di pashmina e ai pugnali d´argento intarsiato, è in vendita il Corano. Le orchestre di strada con mandolini e tamburelli diffondono melodie arabesche. I patio con le tende e le verande colorate delle case, i minareti, le facce mediorientali e mediterranee: potrebbe essere Istanbul o Marrakech. Magnificata da Marco Polo nel 1271, città-oasi in mezzo al deserto del Taklamakan, tappa obbligata che per duemila anni ha visto scorrere con le carovane di cammelli il commercio fra Oriente e Occidente, Kashi è molto più vicina a Kabul e Islamabad che a Pechino, e non solo in senso figurato: anche in chilometri. Per arrivarci dalla capitale ci vogliono otto ore di volo verso ovest con scalo nel capoluogo dello Xinjiang, Urumqi. A differenza di Urumqi, demograficamente più "sinizzata" e invasa da grattacieli che la rendono un po´ simile ad altre città della Cina, la fisionomia di Kashi resiste inconfondibile. Il 70 per cento degli abitanti sono uiguri, orgogliosa etnìa turcomanna e musulmana. Neppure sui nomi vogliono piegarsi, per loro Kashi resta Kashgar, lo Xinjiang è Turkestan orientale. Visti da Pechino sono un piccolo popolo, ormai in minoranza perfino a casa loro: appena 8 milioni di uiguri su 20 milioni di abitanti della regione, e circondati da 1,3 miliardi di cinesi. Ma a differenza dei tibetani, oltre i confini della Repubblica popolare questi sono attorniati da "fratelli". Lungo i 5.600 km di frontiera esterna lo Xinjiang confina con otto nazioni di cui cinque di religione musulmana (Pakistan, Afghanistan, Tajikistan, Kyrgyztan, Kazakhstan) e popolati a loro volta da minoranze turco-uigure. La titanica statua in granito di Mao Zedong che domina la piazza centrale di Kashi - uno dei pochi monumenti di queste dimensioni in tutta la Cina - ricorda la partita che si gioca al confine tra la superpotenza asiatica e l´Islam. La tensione è esplosa con ferocia quest´estate: prima gli attacchi degli uiguri ai cinesi han, poi le rappresaglie degli "immigrati-padroni", infine l´intervento massiccio della polizia e dell´esercito. Quando sono riuscito a penetrarvi a luglio, ho trovato Kashi in stato d´assedio, militarizzata. È una ragione in più per visitarla, e andare a vedere nel cuore di un luogo così antico le contraddizioni moderne della Cina.

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