lunedì 23 novembre 2009

Tizano Terzani e il Tibet di Pietro Verni

La prima volta che sentii parlare Tiziano Terzani di Tibet non fu di persona (all'epoca non lo conoscevo ancora) ma attraverso uno schermo televisivo. Lui non era ancora rinato in quel bel vecchio e saggio yogi dall'incolta barba bianca che ci hanno consegnato le ultime immagini di questa sua esperienza terrena. Era "solo" il corrispondente dall'Asia del settimanale tedesco Der Spiegel, dal conversare pirotecnico, con un bel volto glabro su cui spiccavano due folti baffi neri e due occhi scuri che dardeggiavano sguardi in cui carisma, passione, intelligenza giocavano a rimpiattino con quel suo elegante accento fiorentino che non lo abbandonava mai. Se non ricordo male si era all'inizio degli anni '80, e la Rai stava trasmettendo una lunga intervista a Tiziano che rappresenteva il filo conduttore di una bella trasmissione sulla Cambogia e lui, prendendo spunto dalle avventure di Pol Pot e compagni, aveva approfittato per parlare a briglia sciolta dell'intera situazione geo-politica dell'Asia, quel continente che aveva segnato così profondamente la sua esistenza professionale ed umana. In quel periodo pochi, pochissimi giornalisti si ricordavano che esisteva un Paese chiamato Tibet da alcuni decenni occupato illegalmente dalla Cina. Tiziano invece, mentre stava raccontando degli sforzi del principe Sianouk per ottenere l'aiuto della comunità internazionale contro l'invasione vietnamita della Cambogia, fece un parallelo tra la difficile situazione in cui si trovava il monarca cambogiano e quella altrettanto drammatica in cui si trovavano il Dalai Lama e il suo martoriato paese. In poche, concise frasi descrisse quello che era successo, e che ancora stava succedendo, sul Tetto del Mondo nel silenzio generale di opinione pubblica e goberni. Più o meno nello stesso periodo, Tiziano Terzani aveva parlato di Tibet anche in quello che, a mio modesto avviso, ancora oggi si può considerare il suo libro più intenso, appassionato e riuscito: La Porta Proibita. Uno sterminato reportage dalla Cina Popolare lungo centinaia di pagine in cui Tiziano racconta cosa è veramente successo in quello che fu l'Impero di Mezzo dopo la presa del potere da parte di Mao e del Partito Comunista. E all'interno di quell'affresco drammatico e impietoso (ancor più difficile per uno come lui che per anni aveva creduto profondamente nella bontà dell'esperimento maoista) c'è un capitolo dedicato al Tibet in cui l'orrore dell'occupazione cinese viene rivelato senza reticenze o ipocrisie. Certo oggi, quando il Tibet e il Dalai Lama sono finalmente usciti dal cono d'ombra in cui erano stati relegati per tanto tempo, un capitolo dedicato al Tetto del Mondo all'interno di un libro sulla Cina può sembrare poca cosa. Ma nella prima metà degli anni '80 non lo era. In quel momento le parole di un giornalista come Tiziano Terzani erano uno dei pochi elementi cui, tutti coloro che cercavano con fatica di sollevare la questione tibetana, potevano rifarsi. Infatti, dal momento che nelle librerie La Porta Proibita era quasi introvabile, l'Associazione Italia-Tibet comprò da Longanesi le ultime decine di copie per diffonderle attraverso i propri canali. Tra le tante fortune che mi sono capitate in questa vita, c'è stata quella di conoscere personalmente Tiziano Terzani e continuare a frequentarlo per diversi anni. Nel 1993 avevo infatti pubblicato un libricino sul Mustang, un'area tibetana che fa parte del Nepal e in cui Tiziano stava per recarsi. Un comune amico gli aveva detto che ero a Delhi, dove nei primi anni '90 lui dirigeva l'ufficio di Der Spiegel, è così mi volle incontrare per fare una chiacchierata sul quel remoto angolo dell'Himalaya. Arrivò a cena vestito con un'elegante giacca di panno bianco nepalese e si mise a parlare con me come se ci conoscessimo da sempre. Voleva sapere se era vero che in Mustang la cultura tibetana era ancora quasi incontaminata, se i silenzi fossero davvero immensi come li avevo descritti nel mio libro, le valli così sterminate, il vento così insistente, i tagli di luce così puri e tersi. Andammo avanti fino a notte inoltrata. Lui che chiedeva, io che rispondevo e a mia volta facevo a lui molte domande. Sorrise quando gli ricordai l'intervista televisiva in cui parlava del Dalai Lama e gli raccontai che avevo fatto acquistare all'Associazione Italia-Tibet le ultime copie del suo La Porta Proibita. Inutile dire che dal Mustang il discorso ben presto si ampliò fino ad abbracciare l'intero universo tibetano, il maoismo, i rapporti tra la Cina, l'India e il Tibet. Tra l'altro, ridendo, Tiziano mi disse che si riteneva in qualche modo un "osservatore privilegiato" dell'universo tibetano che frequentava, "come dire, quotidianamente" avendo due ragazze tibetane che si prendevano cura della sua abitazione indiana. Con mia grande gioia a quella prima chiacchierata ne seguirono molte altre per tutto il periodo in cui Tiziano rimase a Delhi e anche se non si discuteva solo di Tibet, di sicuro quello era uno dei nostri argomenti preferiti. Penso di poter dire che il suo interesse per il "Paese delle Nevi" era attraversato da una particolare forma di simpatia. Forse sarebbe esagerato dire che lo amava ma certo ne parlava sempre con grande tenerezza. Ad esempio gli piaceva frequentare i tibetani. Era felicissimo quando ai nostri incontri partecipava anche mia moglie Karma, a cui non si stancava mai di chiedere notizie sulla sua condizione di profuga tibetana. In particolare gli piaceva nei tibetani quel sapere essere fedeli alle proprie radici senza chiudersi in una dimensione reazionaria. "Non hanno bisogno di recinti, che poi sono prigioni per chi li alza," mi diceva spesso, "per essere fedeli a loro stessi". Così come lo intrigava -e ammiccava sornione quando ne parlava- quel sottofondo di magia, superstizione e mistero che secondo lui, "... c'è nel fondo dell'anima di ogni tibetano". E la cosa lo divertiva, lui così profondamente laico ma proprio per questo in grado di accettare anche e soprattutto i punti di vista e i comportamenti tanto distanti dal suo. Spesso parlava degli elementi di contatto e delle differenze esistenti tra la Cina e il Tibet. E una delle cose a favore di quest'ultimo era, secondo lui, la gran facilità che hanno i tibetani a sorridere. "Quello che mi colpisce di questa gente", mi confidò una sera, "è quanto siano pronti alla risata. Nonostante tutto quello che hanno passato e che stanno passando è raro che un tibetano, mentre stai parlando con lui, non sia pronto ad esplodere in una fragorosa risata. I cinesi invece non ridono quasi mai e quando lo fanno è come se ne provassero vergogna." Quello che invece proprio non sopportava del mondo tibetano era la cucina. "Eh, qui invece la vincono proprio i cinesi. I tibetani hanno pochi piatti e non sono mai granché appetibili. A cominciare da quelle terribili palline di tsampa [farina d'orzo abbrustolita elemento tipico della cucina tibetana, N.d.C.] che mangiano con il tè... che è pure salato! Vuoi mettere con la raffinatezza della cucina cinese. E che dico cinese! E' una cucina di un continente immenso dove ogni regione ha i suoi piatti tipici e quasi sempre gustosissimi. Eh, no mio caro per quanto possa essere dalla parte dei tibetani riguardo al mangiare mi sento cinese!". E in questo mi ricordava un suo grande concittadino, Fosco Maraini, che mi disse una volta di amare tutto del Tibet tranne la sua alimentazione. E poi a Tiziano del Tibet e dell'Himalaya piacevano i grandi spazi. Le distese sconfinate, le valli che si perdono all'orizzonte senza mostrare una fine, "... così diverse dalle nostre che per quanto belle sono sempre vicine a finire". E i silenzi. I silenzi assoluti, totali, "pneumatici", di quel mondo. Per questo trovava la modernizzazione imposta da Pechino al Tibet ancora più insostenibile. E non aveva, per sua fortuna, visto cosa è successo al Tibet in questi ultimi anni. "Non solo lo hanno occupato... non solo la loro repressione è durissima ma ne hanno anche violato i silenzi..." mi raccontò sconsolato più di una volta. Lui che viveva nel frastuono del mondo dell'informazione di cui era uno dei principali protagonisti era sedotto dal richiamo dei grandi silenzi tibeto-himalayani e rimpiangeva di non potervi rimanere immerso quanto avrebbe voluto. L'interesse e la tenerezza di Tiziano per il Tibet venne ancor più amplificata dall'intervista che fece, non mi ricordo esattamente quando ma doveva trattarsi della seconda metà degli anni '90, a Dharamsala con il Dalai Lama. "Mi aspettavo una persona interessante ma il tuo Tenzin Gyatso è veramente eccezionale. Capisco perché gli dedichi tutto quel tempo" mi disse quando ci vedemmo dopo che l'aveva incontrato. Soprattutto del Dalai Lama apprezzava la capacità di muoversi lungo orizzonti ampi. Di non aver paura dell'utopia. Di ritenere possibile un mondo migliore dove le buone intenzioni fossero comune moneta di scambio e non sogni irrealizzabili. Abbiamo spesso discusso sulla visione del Dalai Lama riguardo alla scelta della non violenza e Tiziano era assolutamente d'accordo con le posizioni del leader tibetano. Molto più di quanto non lo fossi (e non lo sia) io. E poi era rimasto affascinato dalla freschezza del Dalai Lama, dalla sua capacità di stupirsi, di entusiasmarsi. E questa freschezza, questo avere la mente aperta di un principiante, questo essere sempre come all'inizio del viaggio era un tratto che sicuramente avvicinava Tiziano al Dalai Lama. Perché Tiziano, nonostante negli ultimi decenni della sua vita non avesse fatto altro che viaggiare, si metteva sempre in cammino come si trattasse della prima volta. Fu una delle cose che maggiormente mi colpirono di lui quando lo conobbi. Era uno dei corrispondenti più famosi del mondo. Aveva viaggiato per tutta l'Asia. Aveva alle spalle una folgorante carriera. Eppure stava preparandosi ad entrare in quel minuscolo angolo himalayano che è il Mustang, con l'entusiasmo di un ventenne alla vigilia della sua prima partenza. Stesse curiosità, stessa eccitazione, stessa voglia di prendere e andare. Un giorno glielo dissi. Gli dissi come mi aveva colpito la sua eccitazione per un viaggio tutto sommato minore rispetto a tanti altri che aveva fatto. E lui mi rispose che "... il segreto è proprio qui. Non farsi intorpidire dall'abitudine, se no è finita. Ogni viaggio deve essere come il primo altrimenti non c'è più mistero, non c'è più magia e il tuo lavoro diventa ripetitivo, inutile. E rischi di non capire quello che hai davanti perché il nuovo ti sembra sempre vecchio". Stavo terminando questo articolo quando ho visto in televisione l'ultima intervista che Tiziano aveva rilasciato un paio di mesi prima di lasciare il corpo. Sembrava uno swami indiano. L'enorme barba candida, i capelli raccolti in una piccolo chignon dietro la nuca, un lungo kurta pijama bianco come abito... esteticamente era molto diverso dal giornalista con cui avevo trascorso alcune delle serate più interessanti della mia vita. Però lo sguardo, anche se leggermente velato dalla malattia, era quello di sempre. Penetrante, deciso, intenso. Uno sguardo che spiega e interroga al medesimo tempo. E anche l'entusiasmo era quello di sempre. Ha parlato di pace e non violenza, un tema che negli ultimi tempi gli era particolarmente caro e per il quale si era radicalmente schierato. Ma ha anche parlato del Viaggio e, in particolare, di quest'ultimo grande viaggio che stava compiendo verso l'abbandono del presente corpo fisico. Non parlava più di morire ma, come ogni buon orientale, di "lasciare questo corpo". E ha parlato di tante altre cose. Anche di molte di cui avevamo discusso insieme. Per esempio di uno degli aspetti della filosofia orientale che lo affascinava di più. L'armonia degli opposti. Quell'idea che una cosa non può esistere senza il suo contrario. L'idea dell'intrinseca unità del creato. Che tutto sia uno. Che non esista il nero senza il bianco, che non esista il bene senza il male. L'intervista avveniva nel suo piccolo eremo toscano dove si era ritirato per trascorrere in pace l'ultimo tratto di strada prima del "... termine di questo viaggio". Eppure mi sembrava di essere nella sua bella casa di Delhi quando, proprio come ad Orsigna, affermava, "Tutto è uno. Questa idea della dicotomia è profondamente sbagliata. E niente meglio di un grande simbolo asiatico, in questo caso cinese, questa ruota con lo Yin e lo Yang, rappresenta la vita, l'universo... è l'armonia degli opposti. Perché non c'è acqua senza fuoco, non c'è femminile senza maschile, non c'è notte senza giorno, non c'è sole senza luna, non c'è bene senza male. E questo segno dello Yin e dello Yang è perfetto. Perché il bianco e il nero si abbracciano. E all'interno del nero c'è un punto di bianco e all'interno del bianco c'è un punto di nero".
Addio Tiziano. O meglio arrivederci. Chissà che non ci si possa incontrare di nuovo per "un altro giro di giostra". Magari per goderci insieme il silenzio e l'immensità degli spazi tibetani. In un Tibet finalmente libero e indipendente.

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