lunedì 23 novembre 2009

Giuliano Amato racconta Tiziano Terzani

Tiziano Terzani fu mio compagno, negli anni universitari, al collegio Sant'Anna di Pisa. Mi diceva: «Voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». In Asia maturò una radicale ostilità verso la guerra. Negli ultimi tempi giunse alla convinzione dell'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, quello della vita: una visione per cui la guerra non ha senso alcuno. Ma non gli renderemmo un buon servizio se ne facessimo un santone del pacifismo.
Non avevamo ancora vent'anni quando ci conoscemmo. Ciascuno di noi veniva dal suo liceo, dalla sua provincia ed essere in quel collegio a Pisa, all'università, significava per Tiziano, per me e per gli altri superare i confini dentro i quali eravamo cresciuti, entrare in un mondo più grande, scrutarlo e cercarci quello che quei confini ci avevano negato. Si crearono, come sempre accade, amicizie più strette e si formarono piccoli gruppi, all'interno dei quali la ricerca avveniva lungo gli stessi percorsi. Ed erano percorsi i più diversi. Potevano essere infinite discussioni notturne sulla Montagna incantata o trasgressive esperienze di coppia, vissute nello stesso collegio contro le regole di allora, che vietavano in radice l'ingresso di ragazze nelle nostre stanze. Giuliano e Diana, Romano ed Elena, Enrico ed Erna e poi Tiziano e Angela fecero da battistrada su questo percorso. E furono insieme anche su altri.
Poi ciascuno prese la sua strada e continuò da solo (o meglio, solo con la sua compagna) la sua ricerca. E fu a quel punto, quando da poco tutti avevamo lasciato il collegio, che capii che la ricerca di Tiziano mirava più lontano di quella degli altri. Come Romano e Carlo aveva aderito alla richiesta di personale che allora la Olivetti indirizzava ai migliori delle università (il personale lo selezionava Paolo Volponi) e si era trovato a bussare alle porte per vendere macchine da scrivere. Lo sapeva che era un'esperienza temporanea, che era la gavetta a cui tutti si dovevano assoggettare in vista di lavori più gratificanti. Ma non la sopportava e soprattutto non vedeva se stesso neppure in quei lavori più gratificanti. Mi telefonava sempre insoddisfatto e mi diceva: «Ma io voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». È già grossa detta oggi, da un ragazzo di quell'età, ma allora era enorme. Allora in Cina non si entrava neppure e io gli dicevo: «Tiziano, sei completamente matto, pazienta qualche mese e vedrai che le cose cambiano».
Ma la sua testa non era nell'Olivetti, era in Oriente. Che ci fosse perché già Tiziano sapeva che cosa cercarva e, soprattutto, che cosa ci avrebbe trovato nella stupenda stagione che ha vissuto prima di «abbandonare il suo corpo», io francamente non lo credo. Gli attribuirei di più di quanto già non avesse e lo farei essere quello che ancora non era. Ma è certo che la tenacia, la vera e propria ostinazione con cui si mise a perseguire quel disegno, che io trovavo folle, qualcosa lo provano: almeno emotivamente sentiva che là per lui c'era qualcosa di tanto importante da essere irrinunciabile. E riuscì ad andarci. Cominciò a scrivere per un giornale italiano e queste sue prime credenziali gli consentirono, con l'aiuto credo di Angela e della sua famiglia, di arrivare a Der Spiegel e di divenire inviato dello stesso Spiegel non in Cina, ma ai bordi di questa (come tutti i giornalisti occidentali del tempo). Iniziò così un'avventura che divenne una nuova vita, per lui e per la famiglia che si stava formando.
E fu una vita segnata da cambiamenti profondi, da un inveramento progressivo dell'animo di Tiziano, che oggi ci appare guidato da un filo sicuro, ma che sicuro certamente non fu. Gli costò anni di riflessione, mentre gli passavano sotto gli occhi vicende ora umanissime ora atroci; ed anni di meditazione solitaria con gli occhi puntati sulla montagna e la mente e il cuore a frugare ancora in quelle vicende. Quel filo, insomma, Tiziano se lo è trovato, lo ha districato da chissà quanti altri e ha dato da ultimo un senso straordinario e profondo alla ricerca che aveva cominciato molti anni prima. Per questo alla fine era sinceramente felice e quando se ne è andato ci ha lasciato, non con il senso della morte, ma con la felicità della vita. L'Oriente che si trovò davanti quando vi giunse, e negli anni che seguirono, fu quello del totalitarismo del comunismo cinese, della guerra in Vietnam, dei massacri cambogiani: arbitrii, uccisioni, autentiche stragi, manomissioni della vita e della libertà umane in nome di spietate ideologie. Non era imprevedibile che tutto questo facesse maturare e crescere in Tiziano una ostilità sempre più forte nei confronti della guerra, la convinzione che essa possa trovare delle occasioni, mai delle ragioni.
Meno prevedibile fu che questa ostilità arrivasse nel tempo ad assumere in lui le motivazioni e l'ispirazione che portano il soldato giapponese Mizushima, il protagonista del film L'arpa birmana, a farsi prete buddista e a percorrere l'intera Birmania per trovare e seppellire i suoi compagni morti in guerra. Ma di questo ci accorgemmo, e lui stesso si accorse, molto più tardi. Ho avuto ripetuti contatti con Tiziano nel corso degli anni. Non abbiamo mai smesso di parlare di noi, ogni volta che ci siamo visti; di noi e dei nostri figli, che intanto erano arrivati e cresciuti, e di quello che stavano facendo e che un giorno avrebbero potuto fare insieme (almeno i nostri figli maschi, entrambi legati al teatro). Ma parlavamo anche del mondo e Tiziano, pur consapevole delle radici della violenza nello stesso Oriente, le trovava in primo luogo nel corrosivo individualismo e nella spietata competitività della nostra civiltà occidentale. Lo diceva a me e non si peritava di dirlo in posti come Cernobbio, dove la sua voce era, a dir poco, solitaria e controcorrente.
Ma fin qui una voce del genere, per quanto inusitata a Cernobbio, appariva e veniva intesa come la voce di uno dei tanti occidentali attirati dall'Oriente e da quella civiltà riflessiva di cui l'India (dove infatti Tiziano viveva sempre più a lungo) è una sorta di tempio. Io stesso — devo confessarlo — lo percepivo così, non avevo ancora capito che Tiziano spiritualmente era ancora in cammino, che non era un occidentale pago di guardare criticamente l'Occidente da Oriente, ma continuava a cercare, a cercare se stesso ed il mondo. Lo avrei capito, e lo avremmo capito tutti, nella fase terminale della sua vita, quando lui stesso capì che cosa stava cercando e finalmente lo trovò, guardando la montagna. Cercava, e trovò, la fondamentale unicità del creato, l'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, che è quello della vita, che passa da una creatura all'altra e che così preserva il mondo, l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, le bellezze che godiamo. E quando ne fu pienamente consapevole, comunicò con gioia ai figli il suo eureka e in tutta serenità si accinse ad abbandonare il suo corpo. Non solo sapeva a quel punto perché sopravviviamo a noi stessi, ma sapeva perché non ha senso alcuno la guerra, e lo sapeva perché vedeva finalmente l'errore di fondo dello schema dialettico, quello che contrappone il mio io a ciò che è altro da me e che sorregge l'opzione fra la pace e la guerra, facendo della scelta della pace una scelta (così ci spiega il realismo) di basilare convenienza.
Non c'è l'altro da me, questo fu l'approdo di Tiziano. E su questo approdo la pace non ha negazione possibile. Credo che sia qui, oltre che nel suo straordinario fascino personale, la ragione dell'amore che lo circonda e della quantità enorme, forse inaspettata, delle persone che continuano a leggerlo, a parlare di lui, ad adunarsi in ogni occasione in cui lo si ricorda. In un mondo in cui ancora prevale la paura, e spesso è paura dell'altro da sé, è fortissimo il bisogno di cancellarla, questa paura, ed è fortissimo perciò il desiderio di pace. Ma non faremmo un buon servizio a Tiziano, né a quello che ci ha lasciato, se ora trasformassimo lui in un santone e Angela e i suoi figli in chierici addetti al suo altare. Se il suo approdo ha un senso, neppure lui è altro da noi ed è a noi che lui stesso ha affidato la continuazione della sua vita. Viviamola, questa vita sua e nostra, dentro noi stessi. Quando seppi della sua morte, venni preso da un pianto irrefrenabile e mentre parlavo per telefono con Angela sentivo che la mia voce era rotta dai singhiozzi. Ora quel senso di morte è scomparso. Perché la vita è davanti a noi, la vita si vive, non si commemora.

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