domenica 18 febbraio 2007

Jodhpur Udaipur

di Sonia Squilloni

8 agosto 2006. Sveglia regolare, colazione e come prima tappa della giornata, Jodhpur, la città azzurra. Il colore ha una doppia valenza, è un riferimento alla casta brahamana che predomina in città, ma sembra sia anche un modo per tenere lontano gli insetti e la calura. Saliamo verso il Meheranghar Fort , che sta proprio arroccato su un altura e domina il fitto tessuto urbano fatto di quadratini pieni e vuoti. Qualche scatto fugace al panorama e come non fermare quelle due bici abbandonate al muro?! Ma quante ne avrò di foto di bici!

Entriamo, ingaggiamo una guida locale, un signore di mezza età assai elegante, con i capelli tinti con l’henné di rosso. All’ingresso troviamo la formella che ricorda la “sati” , il sacrificio che si autoinfliggevano le moglie dei regnanti, nonostante il divieto inglese, buttandosi sulla pira del marito al momento della presa della città da parte di conquistatori. Che donne! …altra cultura! Saliamo ancora lungo un succedersi di porte e viali, sistemi difensivi probabilmente, per arrivare ad un cortile sul quale il palazzo mostra la sua veste di merletto. Arenaria rossa finemente lavorata come se fosse legno o filigrana. Si tratta di raffinatissime “jali”, finestre traforate dalle quali le donne di corte potevano assistere alla vita di corte senza essere sfacciatamente viste. Ne vado matta! Ci strofino sempre il naso, come probabilmente facevano allora. Una dietro l’altra, colori dietro colori, scatto una quantità assurda di foto ai guardiani , che più che per controllo fanno scenografia. Sono tutti uomini baffuti con turbante colorato. Il gusto per il primo piano mi prende un po’ la mano. Uomini vanitosi , si mettono pure in posa! All’ultimo piano, toilette, sembra una cosa normale, ma non in India e …siccome la nostra guida fuma, gli faccio compagnia comodamente seduta in un divano di pelle a guardar il panorama. Ancora sale , ancora finestre particolari, dettagli accattivanti e poi le miniature, deliziose! Della città non abbiamo potuto vedere nient’altro purtroppo, siamo ripartiti subito direziona Jaisalmer, la città del Rajastan più a ovest, verso il Pakistan. Se riusciamo, prima di arrivare in città, faremo un salto anche nel deserto.

Tappa banane a Osian. Scesi siamo assaliti e guidati per mano da un folto gruppo di bambini, vivaci, in carne, ben custoditi e determinati ad ottenere qualcosa! Rupies, “sculpen” o soap! Ci accompagnano al primo tempio, il Tempio di Sachiyamata. Succestivo l’ingresso, vi si accede tramite un ampia gradinata. Dentro è vissuto, anche un po’ kich, ventilatori, specchietti, locandine colorate. Al centro del mandapa, la cupola che ricopre la sala centrale, un fuoco acceso, da lì si capice perché il soffitto è tutto nero. Siamo accolti con calore, ci offrono della noce di cocco spezzata con delle mani zozze… tocca assaggiarla, uhm… non sta bene rifiutare! Una famiglia numerosa o una comunità intera di uomini e donne ci viene incontro e chiede di farsi delle foto, uomini con uomii, donne con donne. Hanno anche un piccolo bimbo in braccio, nudo con il cordino in vita, dice usa così fino ad una certa età. Dall’alto traguardiamo dove sono gli altri templi e li raggiungiamo. Sono siti abbandonati oramai. I bambini ci ritrovano e ci guidano per le strade. Le bimbe che mi tengono per mano alla fine ottengono i 4 orecchini che porto agli orecchi. Sono tanti, insistenti ma simpatici. Qualcuno ha degl’occhi visti esagerati. A questo giro l’incontro con gli indigeni è stato più che piacevole.
Di nuovo autobus, di nuovo monsone. Ho goduto un sacco ho tenuto i piedi fuori e me li sono fatti bagnare dall’acqua. Mi piace questo pulmino dall’aria un po’ scassona, crea meno distanza con il contesto. Non sarebbe affatto bello, ne piacevole, né salubre, chiudersi in un asettico pulman dall’aria condizionata. Sono contenta del disagio, pare poco?! Lungo il viaggio mi capita di fare due parole con Beppe. Di cosa? Abbiamo trovato subito più argomenti in comune, Beppe ha vissuto per un paio d’anni a Genova e allora parto a ruota libera… la Commenda di Pre, Palazzo Spinola, Brignole… e poi ha letto “Ritorno in India”, che volere di più!? Non ricordo a che punto, subito dopo la lettura della Bhagavadghita, subito dopo l’arringa di Krishna ad Arjuna, m’addormento di botto. Crollo. Mi risveglio durante un scroscio di monsone e un momento di incertezza: andare o non andare a Sam Dunes a fare in giro sul cammello, anche se piove e non c’è tramonto? Andare!! Andare!! Tanto qui il tempo cambia ogni tre secondi! E abbiamo fatto bene. La tenacia è stata premiata dall’asciutto e dal tramonto. La gita in cammello breve ma intensa. Ho perso subito le ciabatte… quell’animale impenna quando parte! il cammello che ci trasportava non era nemmeno troppo tranquillo e un pò s’è arrabbiato, aveva delle costole appuntite!! Insomma non è un animale che mi rimane molto simpatico. Bimbetti troppo insistenti c’aspettavano al pulman. Riflessione sull’elemosina. Personalmente non è un gesto che apprezzo, non lo faccio in Italia e non mi sembra praticabile tanto meno in questo contesto. Annienta ogni dignità, la loro e la mia. Non posso mica tagliare le mani a qualcuno?
La luna stasera è piena e si fa guardare dal bordo della piscina dell’albergo in cui alloggiamo, estremamente piacevole e confortevole. Al rientro in camera sorpresona che alimenta la sintonia creata tra me, Tiziana e Daniela. L’aria condizionata, che a me e Tiziana pare glaciale, lanciavamo segnali di fumo?! non turba affatto Daniela che scriveva i suoi pensieri a 13 gradi circa. Riportato il clima tropicale tenendo aperta la porta sul cortile, gesto che nel sonno ho maledetto. Ho passato la notte a cercare, senza occhiali, il modo per far ripartire l’aria, ma invano. Da lì la necessità di passare in pigiama a più riprese sotto la doccia. Quando dormo, dormo, non ragiono.

7 agosto 2006. Addio Udaipur. Post colazione, rito della sigaretta. Non cerco il gruppo, questa la fumo da sola… fuori dall’albergo non darò mica scandalo. Il posto è assai dignitoso, l’odore d’india tradisce un po’ troppo mah... L’albergo è rintanato dietro un anonimo parcheggio, poi si apre un piccolo ma curato giardino con piscina che pare finta, tutto cinto da mura. Dietro c’è l’acqua, quel lago che vedo dalla finestra. Il mio primo panorama indiano . Saluto il tipo che apre e chiude la porta. Qui la manodopera non deve proprio costare niente. Questo sta fisso ad aprire e chiudere la porta. Mi fermo prima del giardino e accendo. Cerini. Nel volo di avvicinamento Mumbay Udaipur m’hanno rapinato degli accentini. Tempo due tiri, ecco uno dell’albergo con la gabbannella grigia che mi chiama e mi indica di seguirlo, mi porta verso il muro di cinta. Ovviamente non capisco una mazza, ma cosa mi può fare mai?! Stuprare di prima mattina?! … mi porta a quel piccolo ghat
che ho zoommato dalla finestra. Non ci posso credere?! che mi si legge in viso che sono in India a cercare acqua?! Apre l’arcaico lucchetto e mi concede i gradini. Lo ringrazio portado le mani giunte al naso e mi sistemo appollaiata sulle scale a guardare l’acqua,fumando la prima gustosa sigaretta di questo secondo giorno indiano.
Saga dei bagagli, autobus stipato e via! Prima destinazione Monte Abu. Il Touring dice che è una località di villeggiatura per gli Indiani in viaggio di nozze, panoramica, su di un cucuzzolo degli Aravalli, 1200 mt, domina diversi laghi. Noi andiamo a vedere un complesso di tempi jaina. Il viaggio non è affatto breve e nemmeno agevole, dopo un tratto in piana si sale e i tornanti sono ripidi e numerosi. Mi domando se l’autobus ce la può fare. Certo non è un ultimo modello ma si presta bene, l’aria condizionata è rotta ma per me è ottimo. Odio quell’aria preconfezionata che ti schiaccia il sudore addosso e ti mina la gola. Qualcuno si lamenta, speriamo che non trovi forza. Prendo posto nel penultimo sedile sulla fila di destra. In fondo in fondo, é troppo a discola e poi oggi è pieno di bagagli. Ho trovato un paio di buone posizioni, scalza a mezzo loto oppure con i piedi appoggiati al finestrino, riesco alternando queste sedute ad uscire indenne dalle 4 ore di autobus. Per fare 30 km in india ci vuole quasi un’ora. Le strade sono a tratti asfaltate e tratti che ti sembra di essere in mezzo ad un campo. Quando passa il monsone cancella ogni riferimento delle strade bianche, rimane che confidare nell’autista.
Appena arriviamo a Monte Abu scatta il monsone, inizia a piovere in modo assai interessante, intenso e continuo. Ci attrezziamo, cappello, k-way. Siamo fradici ugualmente. Procediamo bagnati, la temperatura lo permette. Non possiamo portare niente dentro. Lasciamo gli zaini al guardaroba… non è proprio come quello delle discoteche ma il numerino c’é. La guardia all’ingresso prende in disparte il nostro leader e gli parla ad un orecchio. Pissipissibaubau. Lui fa cenni di assenso, ride. Lo avevo letto sulla guida, non possono entra al tempio le donne durante il periodo mestruale. Sfidiamo il controllo e procediamo scalzi. Il marmo liscio a piedi nudi non è u’impresa da poco. Capo basso, baricentro pure e “dove s’entra?!” Un po’ a fatica troviamo l’accesso al primo tempio del complesso. Molto simile per decorazioni al precedente di Ranakpur ma diverso per planimetria. Più piccolo e definito presenta un portico che corre tutto lungo il perimetro quadrato; sul lato esterno sono disposte delle cellette mentre il lato interno, colonnato, si apre su un cortile che contiene il santuario centrale. Questo é collegato al portico perimetrale da più sale colonnate sormontate da splendide cupole decorate mandapa. Il marmo bianco risplende anche alla debole luce della giornata di pioggia, la decorazione è fitta, sembra un edificio di cioccolato bianco o burro scavato in modo convulsivo. Ci stupiamo dei fregi del soffitto, un grande fiore di loto rovesciato e procediamo lungo il portico, celletta, celletta, ognuna dedicata a un thirtankara, gli illuminati culto dei jaina. È tutto levigato e lucido. Ascoltiamo quello che dice il Touring, sembra che gli artigiani che vi lavorarono, venissero pagati in base alla polvere raccolta a fine giornata e che il loro lavoro fosse considerato atto di ascesi o devozione. Meno male! Visitiamo gli altri due tempi sciolti e ci avviamo all’uscita.
Qui troviamo le ns. calzature sotto sequestro, solo sotto elargizione del riscatto riusciamo a riottenerle. Si tratta di pochi spiccioli ma caspita è il principio! Abbiamo scritto in fronte, “turisti fessi spillateci qualche rupia”. Il tipo non ha alcun diritto di chiederci niente, infatti al gruppo di uomini non chiede niente. Prenderà comunque la mancia. Anche questa è india.
Direzione autobus, sono le 16 e incominciamo a sentire esigenza di cibo… anche se a paragonarci con gli indiani non sembriamo certo affamati. Prima di riprendere il bus, si rende necessario la sosta toilet. Bagni del tempio a detta di qualcuno impraticabili. Bhe, rimane che “scendere in campo” come dice Benigni. Si sembra facile, potrebbe essere il retro di casa di qualcuno che vive per strada. Dopo un po’ di sguardi indagatori trovo personalmente, ne esigo il merito, il posto adatto e collettivizo. Sono stata educata al comunismo e chi non piscia in compagnia… sorvolo i dettagli. All’autobus la prima folla di indigeni, il primo contatto in massa. Siamo circondati da donne, bambini e venditori. Un mix di cordialità, curiosità e perché nò speriamo di guadagnarci qualcosa. Non è stato un contatto indolore, qualcosa scatta. Non saprei dire bene cosa, una combinazione di paura, pietà e imbarazzo per queste due cose. Ingoio tutto, ruminerò in seguito. Si riparte. Pioggia e autobus. Sosta in un villaggio per recuperare banane, patatine e biscotti e si riparte. Non è male quando hai 18 compagni di viaggio da conoscere fare dei lunghi tragitti in bus. Per lo meno all’inizio è assai piacevole. Massimo ci istruisce un po’ sulle caste e circuito un po’ ci racconta anche una storia dal Mahabarata. Manca solo un caminetto acceso per completare l’atmosfera, è veramente stupendo. Non so cosa chiedere di più, un viaggio che promette bene, dei compagni di viaggio sulla stessa lunghezza d’onda ed un accompagnatore che si commuove per la bellezza delle storie della mitologia hindù. Ho subito l’impressione che i diversi libri che mi sono portata rimarranno in fondo alla valigia. Per un’oretta buona siamo anche in fila. Siamo incolonnati con altri camion, non si capisce forse un incidente, scendiamo insieme a quella varia umanità che passa sui cassoni dei camion per le strade del Rajastan. Optiamo anche per una doccetta monsone rapida rapida, tanto fermi per fermi. Quando riprendo coscienza è spuntata la luna, é quasi piena, ci accompagna a Jodhpur.
Sigaretta sulla porta dell’albergo e mi accorgo di quanti gechi ci sia in India. Belli paffuti, immobili, grigio sporco ti grafitano sopra la testa in una quantità considerevole. Per fortuna innoqui e per fortina all’esterno.

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