martedì 1 febbraio 2011

Viaggi, sagre, feste e tradizioni. Italia, Sicilia

"Sagra" deriva da sacra.
E sacre devono essere considerate certe manifestazioni che legano una terra
ai frutti che quella stessa terra riesce generosamente a dare. Che restituisce
dignità ad arti vecchie di millenni, amorevolmente tramandate di padre in
figlio, in un intreccio di tradizione, religione e magia. Un rametto di fico e
tre pateravegloria non sono un prezzo alto da pagare per assistere - in una
capanna fumosa e buia, col calderone che riluce come una luna piena al miracolo
del mutamento del latte in ricotta fumante, candida come le ali di un angelo. E
al successivo estasiante scandirsi di tuma, canestrato e primosale. Sono un
miracolo i frutti della terra di Sicilia.

Lasciatelo dire a chi, come me, vive fuori. E che addentando un solo pomodoro
di Pachino - con gli occhi chiusi come in preghiera - può godere per un attimo
della carezza del sole siciliano sulla pelle. Un lunghissimo istante di
beatitudine, in cui la mente è percorsa dai ricordi d'uve dorate, di vini come
corniola, d'intere riviere profumate di zagare e salmastro, stordenti, di
fragole, tesori dei boschi custodite da Scavuzzi dispettosi, d'arance rosse di
tramonti lontani, perduti, commoventi.
Sagra, sacra. Quanto profanate le "sagre del pesce fritto" dai saloni del turismo. Mi sono spesso chiesto di quale pesce fritto si parlasse. Forse di quei masculini d'a magghia - ossia tanto piccini da passare dalle maglie più strette della rete -
abbanniati nella pescheria di Catania, con lo sfondo dei neri portali lavici
dell'antico Vescovado. Immaginavo quei masculini, dorati da una sapiente
frittura, e posti in un cartoccio di carta paglia, caldi caldi. E avevo l'acquolina in bocca. Ma anche nel turismo la confezione, oggi, è tutto. Li vedete impacchettati, quei visitatori, in defatiganti tour privi del bene più prezioso della terra di Sicilia: l'umanità. In pullman in mezza giornata pretendiamo di mostrare loro il nostro immenso patrimonio di beni culturali e naturalistici, senza spiegazioni, approfondimenti, amore. Poi, per fortuna, una rozza mano di contadino pesca un'arancia da un cesto intrecciato come mille e mille anni fa, e la dona a uno straniero. Così avrà fatto più per l'immagine della Sicilia quel villano ignorante che tutti gli studiosi di marketing di questo mondo. Ricordo una scena, a Favignana, qualche anno fa. Jachunùu longu, ora rais della tonnara, impegnato, durante una sagra condita solo da melodiose cialome, a cuocere, dopo la fatica della mattanza, le larghe fette di pesce rosso. Accanto a lui un turista americano, l'unico che riuscisse a eguagliare i suoi due metri e dieci d'altezza, cercava d'imparare i semplici segreti della cottura: l'uno parlava in siciliano, l'altro in inglese. Ma il vino isolano fece il miracolo di farli intendere alla perfezione.
"You are my brother, and this is my home" disse a fine serata il turista - si
scoprì poi che era un importante uomo d'affari - a Jachinu, esaltato dallo
spettacolo del tuna fish fishing, ma soprattutto dell'autenticità di quei
pescatori. Da due anni vivo a Roma. E posso considerarmi un emigrato, anche se
part-time. E un contrabbandiere. Contrabbando, per i barbari abitanti della
capitale, carciofi di Cerda, o violetti di Ramacca, arance di Francofonte dal
sapore di fragola, piccoli capperi di Pantelleria, e moscato e vino rosso
dell'Etna e origano profumato, e le mille leccornie della sontuosa pasticceria
siciliana. Da qualche tempo spaccio, anche. Una droga terribile, cui ci si
assuefà senza speranza: quel caciocavallo ragusano capace di umiliare persino
il parmigiano "principe della cucina italiana". Se dovesse andarmi male con il giornalismo ...Giuseppe

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