domenica 18 febbraio 2007

Galawatta 2006

9 gennaio Mihiripenna, Sri Lanka

Sono cinque giorni che siamo arrivati, abbiamo già fatto molte cose, ma tante ancora sono da fare; ieri siamo tornati sul Koggale Lake, rischiando di nuovo di pendere il temporale, ma stavolta è andata meglio.

E’ passato un anno dal quel terribile giorno quando l’acqua sommerse ogni cosa e uccise molta gente. Ma, a un anno di distanza, quello che colpisce non è quel ricordo, è come, ancora, la povertà trionfa, indipendentemente dallo tsunami.

Ogni paese che ne è stato colpito ha la sua storia, quest’isola, quasi una goccia che cade dal sub-continente indiano, rappresenta le molte facce della catastrofe, della povertà, della corruzione, delle perversioni del turismo di massa e di alcune positive esperienze di sostenibilità ambientale e sociale.

La casa famiglia Mihiri Gedere (dolce casa), con la quale la nostra associazione ha iniziato a collaborare si è ingrandita, grazie anche al contributo del Comune di Portoferraio; le venti bambine qui ospiti vivono delle spaziose camerate e dispongono di locali dignitosi per mangiare e per studiare; grazie all’ampliamento le più piccole sono state separate dalle più grandi. Lorenzo e Lucilla, padre e madre della casa, ci offrono la loro esperienza in mezzo alle mille difficoltà burocratiche, a persone fidate che divengono infide, alle minacce di cui spesso sono oggetto.

Alla fine il vero problema per questo paese di oltre 20 milioni di abitanti sono le diffuse sacche di povertà e sarebbe importante riuscire, pian piano ad aiutare le famiglie per vivere in una casa dignitosa e garantire ai figli un’istruzione decente. Per fare questo dobbiamo essere presenti sempre sul posto, controllare che ogni minimo passaggio non si perda e che le donazioni arrivino davvero a chi ne ha bisogno. Così hanno fatto Lorenzo e Lucilla scegliendo di vivere qui; molte sono le associazioni, (come loro raccontano) specie in occasione dello tsunami che sono arrivate, dalle più grandi alle più piccole, che hanno mosso enormi masse di denaro, i benefici, però, non sono arrivati a quelli che davvero ne avevano bisogno. I paesi, in Asia, in Africa, nelle zone più povere, sono legati da un filo rosso: ogni cosa è difficile, niente è mai sicuro e anche chi opera nella solidarietà si trova di fronte a situazioni assurde.

Emblematico è il caso dell’orfanatrofio di Kitulampitiya. Lo avevamo visitato prima dello tsunami ed era in condizioni drammatiche, i bambini sporchi e senza assistenza vivevano nel loro infermo quotidiano nella speranza di vedere qualcuno che li visitasse per offrirgli i loro grandi sorrisi. Nient’altro. Rassegnati a questo modo di vivere. Vicino all’orfanatrofio, la Remain Home che accoglie piccoli delinquentelli, ma anche solo semplicemente orfani (questa la loro colpa) parcheggiati li’ -anche anni- in attesa della destinazione finale. Siamo tornati, dopo lo tsunami, a marzo: erano arrivati i soldi e il personale in grado di gestirli, un associazione americana, molto potente con collegamenti diretti al governo, che è riuscita a farsi assegnare la struttura, nonostante il Commissioner fosse il direttore di tutte le province sud del paese. L’orfanatrofio sembrava una scuola modello, tutto cambiato, bagni nuovi, stanze rinnovate, grandi pareti dipinte di fresco con temi fiabeschi, con tantissimo personale dagli architetti agli psicologi che si prendevano cura dei bambini. Dopo qualche mese si è scoperto che il direttore dell’associazione era già stato, in passato, trattenuto dalle autorità per pedofilia, complice sembra sua moglie. Solo un’accusa. Fatto sta che lui è stato espulso dal paese e la moglie è scomparsa, il Commissioner sollevato dall’incarico. Purtroppo tutto è tornato peggio di prima e i bambini versano in condizioni drammatiche. Alla fine sono sempre loro che pagano.

14 gennaio, Mihiripenna, Sri Lanka

Altro tempo che ha scandito la nostra breve permanenza qui. La casa famiglia Mihiri Gedere è il simbolo di un Italia bella e pulita, dell’amicizia e della collaborazione reciproca tra due popoli molto diversi, di come potrebbe essere in futuro il volto ammaliante di questo paese stampato sui sorrisi dei bambini della scuola materna di Lorenzo e Lucilla e sugli “occhi che raccontano” delle bambine della casa famiglia. Si, questo le nuove generazioni potrebbero regalare all’isola asiatica, la forza di risolvere quelle grandi contraddizioni che qui sono presenti, ma soprattutto le enormi sacche di povertà e tutti i piccoli e grandi soprusi che si consumano a partire dal contesto familiare.

Le famiglie che abbiamo adottato avranno la loro nuova casa, la felicità che sprizza dagli occhi delle donne e dei bambini è commovente, la riconoscenza degli uomini mostrata dignitosamente col pudore della povertà consapevole. Nei prossimi giorni visiteremo il villaggio di Pilana, qui, se ci sono le condizioni, inizieremo la collaborazione con l’associazione Home for People for Home; il modello da loro adottato attraverso il microcredito sta dando i suoi buoni frutti in questo villaggio, dove un’intera comunità ha rimesso in moto i rapporti sociali e l’economia.

Ieri è arrivata Harshi, è stata con noi ad Unawatuna, ha cenato con noi e la notte ha dormito con Irene nel piccolo lettino della capanna. Sono entrambe felici di essersi ritrovate, e tutti gli altri bambini, compreso Federico (che è l’unico maschio e soffre spesso di questo sua condizione i mezzo a tutte femmine), sono contagiati dalla presenza di Harshi, serena e altruista come di rado sanno esserlo i bambini occidentali.

Ieri è iniziata la poja; ad ogni luna piena nel paese inizia una grande festa religiosa, e la visita ai templi è un dovere per ogni buddista; peccato che la luna non si è ancora vista, i grandi sconvolgimenti climatici forse iniziano a fare capolino, sono giorni che piove regolarmente durante tutta la giornata ed anche la notte, e il monsone, con la stagione delle piogge per la parte ovest dell’isola, inizia a maggio.

16 gennaio

Oggi dovremmo posare la prima pietra della nostra prima casa. Evento simbolico e sostanziale che ridà la casa ad una famiglia e qualche speranza in più di vivere una vita dignitosa.

Sulla spiaggia, vicino agli scogli, quando l’oceano si infrange sulla tormentata linea di costa, si ergono, spettrali, i pali dei pescatori. Su queste pertiche insicure passano le loro ore a pescare i butter-fish, piccoli pesciolini che poi portano a rivendere ai banchi lungo la strada, un lavoro da 10-20 rupie al giorno. Sono molto folkoristici e fotogenici, appollaiati su quelle strane strutture in legno contorto, quasi simbolo del sacrificio cristiano. Molto appetibili quali soggetti fotografici per il turista, ricordo da portare a casa e mostrare agli amici. Loro stanno bene sul trespolo, è un lavoro come tanti, ciò ci rende sicuri e giustifica lo scatto. A me, invece fanno pensare alla favola del vecchio traghettatore che, quando riesce a consegnare il remo nelle mani del passeggero, quest’ultimo è condannato a traghettare, a sua volta, per tutta la vita. Volentieri anche loro cederebbero il trespolo ai panciuti turisti tedeschi che hanno invaso le spiagge e le guesthouse di Hikkaduwa e Unawatuna, magari anche loro inizierebbero a consumare come noi, a muoversi e a fotografare presunte manifestazioni etniche.

Turisti, consumatori di un prodotto messo sul mercato e modellato secondo le aspirazioni di questa società. Una società piena di contraddizioni e modelli sbagliati. Così con questo turismo arrivano le mega strutture che riempiono di cemento territori incontaminati, proponendo la formula del villaggio con cucina internazionale avulso da tutto quello che c’è intorno. E in quei territori arrivano i problemi della nostre metropoli, violenza, droga e prostituzione. Questo chiede il turista. Cambiano anche gli atteggiamenti nei confronti del turista, ormai visto come una risorsa da spremere e basta, con una capacità di spesa, con stimoli e bisogni diversi e mille volte superiori a quelli dei residenti. All’opposto c’è un altro tipo di turista, quello alternativo, che si adatta ad ogni tipo di sistemazione, o agli ecovillaggi che propongono il modello del turismo sostenibile, inserito nel contesto culturale e sociale dei territori visitati. Messi a confronto non avrei dubbi su quale modello scegliere, ma esiste troppo divario tra i due. Il peso economico del primo è sproporzionato e gli interessi che vi girano intorno azzerano qualsiasi competizione con l’altro.

La via di mezzo, come ci insegna il buon senso, quella da percorrere. Un viaggiatore attento ai luoghi, consapevole del proprio impatto, che sceglie la sostenibilità, non rinunciando ai comfort e i modelli che il mercato propone e impone. Forse un’utopia, perché, quelli del mercato diranno: “la gente vuole questo”, ma solo iniziando a discutere di ciò che vuole la gente possiamo aspirare a mostrare altre vie, rispetto a quelle alla fine imposte dal mercato dell’industria turistica.

Finalmente la luna piena che splende libera nel cielo. Finalmente un’alba da vedere con la luce e i colori del mare tropicale. Una pausa in mezzo a questi giorni di pioggia, quasi il monsone avesse anticipato il suo arrivo di diversi mesi. Sulla costa l’oceano Indiano sbuffa in continuazione, il mare non è mai calmo come nel nostro Mediterraneo. Basta fare qualche metro lasciandosi la spiaggia alla spalle e la vegetazione cresce rigogliosa, avvisando che la giungla è lì a poca distanza. In questo mare e in questa giungla, storie di famiglie e di villaggi poverissimi, testimoni del divario tra ricchi e poveri, anche qui come una forbice sempre più distante. Contraddizioni di questo paese e di questo mondo. Si pone sempre il problema di come aiutare. Essere sempre presenti sul posto, per controllare e monitorare chi si aiuta, favorendo la ripresa economica del nucleo familiare, offrendo risorse e occasioni di lavoro, mai regalando o facendo beneficenza fine a se stessa. La famiglia dovrebbe essere solida e soprattutto il capofamiglia affidabile. Altrimenti gli aiuti si potrebbero trasformare in liquori, bevute e violenze e il sistema si adeguerebbe all’andamento generale. Troppi aiuti risultano controproducenti. Spesso alcune famiglie beneficiarie di aiuti hanno subito violenze e soprusi dagli altri abitanti del villaggio, gelosi e invidiosi di quanto i bianchi stavano facendo per loro, quindi aiuti ma misurati e rapportati alla realtà sociale di quel villaggio e di quel contesto.

Per ora abbiamo visto tre famiglie; con Lorenzo siamo andati a Moragalle, in collina il governo ha assegnato lotti per edificare nuove abitazioni a favore di famiglie povere o “tsunamate”. Terreni sfavorevoli sotto ogni punto di vista, senza strade, elettricità e ogni minimo servizio. Però è così e quindi ognuno deve costruire con le proprie forze, se riesce, la propria casa. La famiglia vive ora in una piccola baracca in legno di 20 metri quadri. Tutto è molto decoroso e il legno esternamente è dipinto di bianco. Il tetto in eternit. Nell’interno piccoli mobili a scatola in legno con tre o quattro giocattoli per i bambini, il letto per tutti e quattro componenti della famiglia e i vestiti appesi alle corde. Gli costruiremo una nuova casa di 38 metri, con circa 3.000 euro. La donna, madre di due bambini, ci ha salutato con grandi sorrisi e si è inchinata, come si fa davanti al buddha ad ognuno noi toccando la terra con le ginocchia e abbassando la testa fino a sfiorarci i piedi.

Le altre famiglie le abbiamo vista con Amal. La prima è in direzione Matara, ma a 5 minuti da Mihiripenna. La capanna in legno con il tetto in foglie di palma insiste su un terreno umido e paludoso. Situazione di gran lunga peggiore. Stessi interni con una cucina esterna con pochi oggetti arrugginiti. I bambini, maschio e femmina sono bellissimi, sorridenti ed espressivi. Qui la casa nuova è già iniziata e sulla base di un calcolo approssimativo potremmo completarla con circa 1.000 euro. Il terreno non è di proprietà, ma Amal ci ha assicurato che l’intervento si può fare.

L’ultima vista ieri è vicinissima alle capanne. A 10 metri dalla ferrovia, ancora più povera, con molte mucche vicino che defecano in continuazione e senza nessuno spazio per giocare. Amal farà il preventivo e poi decideremo. Due bambini maschi, molto belli anch’essi.

Dopo le case, se vi sono le condizioni possiamo far studiare i bambini, una specie di adozione a distanza. La donna dell’ultima famiglia produce piccoli braccialetti artigianali: una possibilità che potremmo cogliere al volo.

16 gennaio

La pioggia ci ha dato solo due giorni di tregua. Ieri, domenica, siamo stati da Lorenzo e Stefano; tramonto stupendo, poi oggi, la mattina sole e cielo sereno, nel pomeriggio è iniziato un temporale monsonico, anche se il monsone arriverà tra qualche mese. “Un tempo così –dice Lorenzo- lo ha fatto undici anni fa.” Loro sono qui da tredici, dopo aver molto viaggiato per il mondo hanno scelto Serendib, l’isola delle pietre preziose, il luogo dove fermarsi. Forse all’inizio da semplici viaggiatori alla ricerca di una meta tropicale dove rifugiarsi dall’incombente insipienza della società occidentale e dal grigiore invernale delle città del nord. Curiosa la loro permanenza elbana, molte persone e luoghi sono rimasti nella loro memoria, molte conoscenze in comune con quest’associazione di elbani “per il mondo”. Ora sono qui nel turistico sud –anche se basta poco per immergersi nei villaggi costieri della giungla dove si respira una altra atmosfera e un’altra natura- dell’isola asiatica: hanno fatto di nuovo la loro scelta, contagiati dai luoghi e dalla gente ed ha preso corpo la loro fantasia modellata con il loro stile, si chiama Mihiri Gedere, dolce casa, direi anche casa della speranza per le 20 bambine ora ospiti. Vengono tutte da storia di violenza e abusi, alcune orfane, qui con “amma” Lucilla hanno ritrovato il sorriso, lo spazio per i lori giochi, la scuola, un posto dove crescere insieme agli altri bambini in una grande famiglia. Le loro due insegnanti sono le fedeli di Lorenzo e Lucilla, la giovanissima Preshani e la più matura Khumudhu. Preshani insegna anche nella scuola materna che è stata inaugurata quest’anno. Scuola con modello Montessori, molto in voga nel paese, riconosciuta dal governo che serve le famiglie dei villaggi vicini. Non delegano a nessuno i loro progetti, seguono tutto direttamente in prima persona. Debbono per forza affidarsi a qualche cingalese, con l’eterna paura di rimanere fregati, cosa che regolarmente accade come con l’ultimo segretario. Abbiamo visto le cinque nuove case che hanno costruito a Panagamuwa e messo a disposizione di famiglie bisognose, ma ne hanno tante altre, famiglie da sistemare. Tutte con indagine sociale già svolta, con verifica sulla affidabilità della famiglia e soprattutto del capofamiglia. Abbiamo così deciso di intervenire su tre famiglie; una delle case è già stata iniziata, ci siamo stati due volte e l’ultima, insieme a loro abbiamo segnato le fondamenta e iniziato lo scavo. La donna, madre di due vispi maschietti, si inchina fino a terra e ci tocca, in segno di devozione, i piedi con le mani. Con la A.M.O., l’associazione di Lorenzo e Lucilla, faremo altri interventi, uno a Pinaduwa (costruzione abitazione per una madre con bambino che ha perso il marito nello tsunami) e una a Panadura, nei pressi di Colombo (sempre madre con bambino poverissimi). Abbiamo rivisto le bambine di Casa Mihiri e Lucilla ci ha lasciato i loro disegni, molti con soggetti ambientali a testimonianza della grande esuberanza della natura dell’isola.

Nel pomeriggio siamo andati a Unawatuna ad incontrare Stefano Benedetti, anima e fondatore della piccola, ma significativa, Home for people for Home. Stefano e Betty, espressioni culturali del movimento alternativo della costa viareggina, da quasi 10 anni hanno frequentano l’isola e dall’impatto con questa terra è nata una piccola guesthouse di 4 camere con ristorante italiano. L’impegno nei confronti della gente si è sviluppato presto e grazie ai contatti in Italia e alle persone che iniziavano a frequentare la guesthouse è nata una rete di collaboratori (tra cui Irene, una giovane e frizzante siciliana che stabilmente lavora per la HXPXH) e sponsor che garantiscono l’attività dell’associazione. L’approccio di Stefano è opposto a quello di Lorenzo e Lucilla. Lui è convinto che i cingalesi o tamil debbono camminare con le proprie gambe e quindi prendere in mano la propria vita e iniziare da soli il recupero e il riscatto. Da questa concezione nascono progetti di microcredito che finanziano le famiglie; quindi la casa, salvo casi eccezionali tipo tsunami (anche perché questo vuol vedere la gente grazie al circo mediatico che si è scatenato sull’evento), non si costruisce come intervento isolato, ma si mette la famiglia nelle condizioni di costruirsela. Questa logica è stata applicata a Pilana, una vasta area della zona interna vicina a Galle, qui nel villaggio di Moragallawatte è iniziata l’esperienza del microcredito. Tramite il collaboratore locale Samantha, sono state avvicinate le prime famiglie del villaggio, sono iniziati gli incontri ed è stato costituito un comitato; questo ha iniziato a discutere regolarmente una volta alla settimana e a definire le esigenze collettive, individuando anche quelle soggettive delle famiglie che iniziavano a proporre progetti da finanziare. Ogni progetto viene valutato dal comitato e approvato, poi sottoposto all’Associazione che decide se finanziarlo o meno. Nel frattempo, tramite conoscenze nel mondo dello sport e dello spettacolo, durante la sua permanenza in Italia (lavora presso un bagno di Viareggio durante l’estate), Stefano è riuscito, attraverso cene e iniziative di beneficenza, a raccogliere circa 50.000 euro che saranno impiegati nel villaggio. Il cantiere è già aperto, verranno realizzati spazi comuni e servizi: una scuola elementare, un consultorio, alcuni laboratori artigianali per tutta la comunità. La costituzione del comitato è risultata strategica per raggiungere gli obiettivi: è stata riconosciuta dagli enti locali ed il comitato ha iniziato a presentarsi a questi chiedendo l’attivazione di servizi, tra cui la viabilità e l’energia elettrica.

L’altro cantiere aperto da Stefano è inserito nel progetto di cooperazione post-tsunami della Regione Toscana. Il progetto regionale è stato suddiviso in diverse azioni, tra cui quelle coordinata dalla provincia di Lucca e di Livorno. Il progetto di Lucca è praticamente stato proposto dal Comune di Viareggio grazie all’idea di Stefano. E’ stato acquisito un terreno e su di esso verrà realizzato un vocation center. Saranno coinvolte le scuole del comprensorio e per i bambini organizzate attività di doposcuola, corsi di inglese, informatica. Per la fascia dei più grandi corsi di avviamento alle diverse professioni. Il tutto seguito da personale locale specializzato e in collaborazione che le sedi universitarie delle province sud (Matara e Kalautara). L’impresario che segue il cantiere di Stefano è lo stesso che utilizza Lorenzo e che costruirà la nostra prima casa; il suo cantiere a Unawatuna per il vocation center è in piena attività e tra un paio di mesi dovrebbe essere chiuso.

L’azione della Provincia di Livorno, quella che ci riguarderebbe più da vicino, sembra per noi poco significativa. E’ stata monopolizzata dalla progettualità di Samarcanda, associazione piombnese che da anni lavora su progetti in Africa. Dopo lo tsunami, in fretta è stato confezionato un progetto sul paese, grazie ai contatti con una delegazione di cingalesi presenti a Piombino. Noi siamo riusciti ad inserire solo l’ampliamento della Casa Famiglia di Lorenzo, potevamo suggerire altri progetti, anche se eravamo giovani e un po’ deboli. In pratica, salvo ulteriori modifiche, il progetto attuale della Provincia di Livorno prevede la costituzione di una cooperativa di pescatori e una di donne artigiane nella zona di Tothamuna e circa un’ora da Matara. In questo caso nessun cantiere è aperto e nessuna iniziativa concreta è ancora partita. Legata alla Provincia di Livorno c’è un’azione complementare, che invece sembra sia partita. E’ quella dell’ANPAS, di Firenze (non capisco perché poi è rifinita nella provincia di Livorno), di questa con i pochi elementi a disposizione e in base a quanto raccolto direttamente a Galle per bocca della coordinatrice, il progetto è concluso, con la creazione di una sorta di consultorio a Hikkaduwa. Anche loro conoscono il progetto su Unawatuna di Stefano e stanno collaborando.

Il villaggio si estende su alcune colline ricche di vegetazione tropicale, coloratissimi pappagalli giocano sulle fronde degli alberi di jack, di cocco e di tek. Le scimmie si ricorrono da una fronda all’altra emettendo suoni di gioia e di meraviglia. Il verde intenso della giungla colpisce come un puffetto sulla guancia mentre si dorme e risveglia alla bellezza ammaliante di questa terra. Così forse ne rimase colpito Marco Polo che la definì “l’isola più bella del mondo” (almeno quello che fino a quel momento si conosceva). Le case si trovano lungo la piccola strada principale in terra rossa, alcune, le altre dal fondo valle salgono le pendici della collina interrompendo di tanto il tanto la fascia continua di verde. Piccole case, in legno, poche in muratura, la maggior parte in argilla. E sono quelle più adatte a questo clima (all’interno della giungla l’umidità arriva fino all’85%), che coinvolgono l’occhio e il cuore immergendoli in un atmosfera da fiaba, fanno pensare nell’immaginario agli stereotipi culturali che abbiamo dell’Africa, dell’America Latina e ovvio dell’Asia. Il colore (e la materia) di cui sono fatte queste piccole case si immerge profondamente nella foresta, garantisce la giusta refrigerazione e protegge dall’aggressiva umidità. La gente tutta sorride e saluta, alcuni piccoli negozi ogni tanto si aprono sulla via insieme a modeste attività artigianali. Sono le microeconomie che attraverso il prestito d’onore sono state attiviate, permettendo alle famiglie di iniziare una vita dignitosa, costruendosi una casa e garantendo ai figli la scuola e magari anche il corso di inglese. Dalla strada principale un piccolo sentiero ci porta sulla cima della collina dove troviamo una piccola e curata casa in argilla. Un piccolo spazio esterno con un pozzo, un’enorme ricchezza per questi luoghi. “Ci hanno lavorato in tre uomini a mano per una settimana”, ci dice Stefano, un’opera straordinaria, un piccolo pozzo di circa trenta metri con due metri circa di diametro, fatto tutto a mano. Qui vive la famiglia di Kumara, il bambino che ha fatto iniziare questa storia. Kumara vive con le due sorelline e il fratellino insieme ad una donna che li ha adottati e presi con sé da quando, piccolissimi hanno assistito all’uccisione della madre. Il padre violento e alcolizzato l’ha uccisa a bastonate davanti agli occhi dei piccoli. Poi Kumara è stato avviato al tempio: qui i bambini poveri vengono abbandonati e fatti vestire da monaci, possono vivere dei sostegni che riceve il tempio, ma sono condannati ad una vita isolata, priva di giochi e di amici, spesso costretti a viveri con monaci anziani, e usati per qualsiasi necessità. E’ in questo tempio che Stefano lo ha conosciuto e ha visto nei suoi occhi birichini e furbetti la voglia di vivere e di giocare. In lui si è accesa una speranza, è scappato dal tempio, ha cercato Stefano, si è ricongiunto ai fratelli nel frattempo adottati dall’affettuosa vecchia che ci ha accolti con baci e sorrisi. Il padre ha fatto solo due anni di carcere, poi è uscito e non può avvicinare i figli per altri tre anni. Dopo non si sa cosa può succedere. Kumara e i fratelli hanno preso confidenza con Stefano e con gli occidentali, toccano, accarezzano, salgono in braccio, giocano. Kumara prende la cinepresa e in poco tempo impara ad usarla, filmando la casa, i vicini e poi, facendosi capire, la vorrebbe in regalo. Dopo il tè salutiamo e i bambini, felici e gioiosi, ci accompagnato fino alla strada. Salutiamo il villaggio delle colline, ringraziandolo di averci regalato un momento magico, di quelli che si ricorderanno per sempre.

18 gennaio

Ieri tramonto tropicale a Unawatuna. La spiaggia, vista dalla linea di costa e placida e morbida. Basta andare lungo la strada che le contraddizioni emergono, confusione, rumore e sporcizia usuali. La strada è una buca continua, la ricostruzione dopo lo tsunami ha riproposto gli stessi modelli e invece di approfittare per fare meglio si è costruito male e peggio di prima. Ma la spiaggia con i colori infuocati del sole che si tuffa nel mare è struggente. Il mare non fa il rumore che conosciamo come a Dalawella, il fragore delle onde chi si infrangono sulla barriera qui non lo senti, quando è calmo, l’oceano, è calmo e basta e qui l’onda arriva dolce senza fragore, sposandosi con la sabbia dorata. Molti turisti, con il modello classico del lettino e dell’ombrellone che conosciamo bene. Tutti i comfort e i servizi per i turisti e davvero qui si può fare una vacanza, spendendo poco o meno rispetto ad altri posti tropicali, e magari anche rilassandosi davvero.

“Many donation” per la scuola di Mihiripenna. Da parte della mamma di Florian e anche da Io. Hanno infatti ristrutturato alcuni locali, rifatto il muro perimetrale, migliorato sostanzialmente le condizione di una scuola che sembrava abbandonata. 250 bambini e bambine. Sui banchi di legno verniciati a grigio i bambini ripetono la lezione. Abbiamo parlato con le insegnanti dei più piccoli (7 anni) e con quelle dei 10 anni, le class teachers, poi con le due insegnanti che conoscono un pò meglio l’inglese Damayanthi e Shirani. Sembrano in gamba e disponibili. Abbiamo improvvisato una lezione in classe, “ my name is” ogni nostro bambino ha scritto il suo nome, appena finito tutti si sono lanciati alla lavagna e hanno scritto i loro nomi, alcuni, essendo il primo anno di inglese e con la paura di sbagliare, facendosi aiutare dai compagni, prima si sono scritti il nome sulla mano ricopiandolo quando poi era il loro turno. L’atmosfera di festa ha contagiato presto tutti e con batti cinque hanno socializzato con i nostri. Lo scorso anno avevamo visitato la stessa scuola, senza bambini e con molte aule che cadevano a pezzi, sembrava una scuola abbandonata, oggi con le donazioni di molti turisti è stata risistemata, anche se ancora molte cose sarebbero da fare. Il caldo diviene presto insopportabile e i nostri bambini, a parte Federico che rimarrebbe qui a giocare all’infinito, si stancano progressivamente. Rimaniamo io e Paola con le insegnanti, ci dicono che alcune cose farebbero proprio comodo alla scuola, come forbici, carta colorata, tavole da appendere per la lettura in inglese, storie e racconti in inglese. Rimaniamo d’accordo che prima di partire, magari insieme, andremo a comprare questi oggetti.

19 gennaio

Di nuovo il tramonto su Unawatuna, ma il ristorante è insipido come gli spaghetti al pomodoro serviti ai bimbi. Il posto è molto bello fino a che non calano le tenebre. Il tramonto accende tutti i colori nella baia tranquilla e il promontorio punteggiato di palme si apre all’oceano, intrepido e misterioso.

Ci si avvicina al rientro a Colombo. Si possono tirare i bilanci e iniziano le sensazioni dovute al ricordo di ciò che è stata questa specie di vacanza; una specie perché sono stato sempre in movimento e abbiamo, credo, investito bene i soldi che la gente ci ha affidato.

Il gruppo dei bambini ha socializzato e giocato bene, Federico, condannato al confronto con le femmine, è stato, credo quello più espressivo e coinvolgente.

Gli adulti. Tra di loro i rapporti sono sempre più complicati dei bambini; ma il gruppo ha retto bene ed è un bel gruppo. Ognuno, ovviamente con il proprio modo di relazionarsi e il proprio atteggiamento. Diversità che è ricchezza nei rapporti umani e in natura.

20 gennaio

Domani lasciamo Serendib. Due costellazioni per niente familiari. Sconosciute e affascinanti, forse il serpente o il drago che si protende di fronte alla capanna nel buio cielo tropicale, le stelle formano una specie di testa aggressiva, sì, forse il drago, con il suo corpo sinuoso disegna due curve armoniose nella notte; l’altra, una figura anch’essa che ricorda il nostro piccolo carro, ma rovesciato, e anch’essa annuncia forme mitologiche che gli antichi avevano immaginato e venerato. Un cielo inconsueto, ammaliante, che vuole farsi scoprire, che accoglie superba e luminosissima la luna. Ma anche qui è diversa. Ora si sta pian piano rimpicciolendo, ma quando è piena qui è giornata di festa, la poya , le scuole e gli uffici sono chiusi e ci si reca al tempio a rendere omaggio e a pregare, tutti vestiti di bianco. Subito dopo la poya, come le altre stelle, diviene per noi sconosciuta e misteriosa, diversa, e inizia a illuminarsi al contrario rispetto al nostro emisfero e nei giorni in cui si sta per spengere assomiglia ad una navicella che galleggia e naviga nell’immensità del creato.

Sotto questo cielo i 20 milioni che vivono a Ceylon conducono la loro vita quotidiana, sempre in continuo movimento sulle strade e sulle colline dell’isola, tutti impegnati nei loro piccoli traffici, e nei loro lavori. Come altrove le contraddizioni del nostro mondo esplodono in mille situazioni. Le storie di ognuno si intrecciano con le altre sulla tela della vita. Questo è il paese di Wimal, che ha scelto di lasciare l’Italia e tornare nella sua terra. Qui è un privilegiato. Un ricco e benestante imprenditore. Conosce molta gente e ha molti amici. Il lavoro in Italia, per oltre 16 anni, gli ha permesso di accumulare un capitale che ora gli consente un agio invidiabile. Ha comprato casa a Colombo, ha sempre la sua casa a Rathgama, vuol costruire un villaggio a Tangalle. Il presidente, che è amico di un suo carissimo amico, gli ha detto che “terra non è problema, si vuoi puoi prendere”. Così prenderà le terre del governo, pagandole pochissimo, per costruire il suo villaggio da vendere ad Eurocamp e Neckermann e ad altri tour operator internazionali che ha conosciuto durante il suo lavoro all’Elba. “Si vuoi terra per costruire case per famiglie povere puoi prendere”. Wimal ci ha invitato all’Unawatuna Beach Resort, lussuoso che accoglie i soliti turisti e che presenta il solito modello di villaggio che si vede ovunque nel mondo. Anche qui a Unawatuna ha molti amici, nei tre container che ha inviato dall’Italia ha portato anche un centinaio di bottiglie di brandy, introvabile qui, così, in parallelo ha invitato anche i suoi amici a bere, cosa molto gradita, in un tavolo a parte; prima di andare via me li presenta, tutti imprenditori di grosse strutture a Unawatuna, cingalesi arricchiti, prepotenti, ma amici di Wimal, “brutta gente” direbbe Lorenzo. Forse lui non è come loro, ma potrebbe, con loro, perdersi. Il fratello di Wimal vive da cinque anni in Giappone a Osaka, è sposato con una giapponese e ha due figli. Parla del Giappone come della terra dei sogni, dell’Eldorado dove guadagnare senza fatica un mare di soldi, un terra in cui ognuno pensa solo a questo, non esiste violenza. Si comporta come il maggiordomo di Wimal, ossequioso e premuroso, fino allo spasimo. Loro mangiano poco e lentamente, Wimal è costantemente in movimento, sempre al telefono. Aprirà, la prossima settimana, un grosso punto vendita per materiale edile. Ha già organizzato il van per noi. Anche lui è figlio di questa terra, anche lui sempre in ritardo. Il tempo qui è diverso, passa, perché succedono tante cose, è inutile fermarlo in un appuntamento, scorre e quindi anche se sempre si arriva tardi non interessa e non importa. Come è diverso questo spaccato del paese dalla famiglie povere che abbiamo visto con Amal, dal villaggio visitato con Stefano, dalle tante esperienze che abbiamo fatto con Lorenzo e Lucilla: storie di povertà, di soprusi e di sopraffazione. Storie comuni anche da noi: quanti casi di famiglie povere, baraccate alle periferie; ma si tratta di gente che cerca una vita migliore nell’occidente benestante (anche se, grazie alla congiuntura internazionale e alla gestione economica italiana stanno aumentando i casi di povertà sommersa, di famiglie che non riescono ad arrivare in fondo al mese e rinunciano anche ai bisogni essenziali), qui il caso è molto più evidente e lungo la costa, nei villaggi, la povertà si percepisce al primo impatto.

Chissà? Potremmo continuare, con una ricchezza in più, il nostro lavoro solidale nell’isola delle spezie.

Stamani diciamo arrivederci a Mihiripenna. Un saluto diverso da quelli del passato, abbiamo continuato a conoscere questa gente, abbiamo conosciuto lo svizzero, l’altro proprietario insieme a Marianne. Galawatta è un po’ più familiare ora, meno misteriosa e forse meno bella. Invece di sicuro è bella la mamma di Harshi; Menika, sempre sorridente e premurosa, sempre gentile, con quegli occhi che raccontano sentimenti di affetto e di amore.

Ma la poesia e l’atmosfera che si è creata intorno alle capanne, testimoni anch’esse dell’onda assassina, la tranquillità sorniona dello scoglio tartaruga, e la serenità che trasmette l’oceano tagliato dalla barriera corallina (e tutto questo è quello che ci ammaliato la prima volta che l’abbiamo visto), forse, sono ormai rare anche in questo angolo dell’Asia tropicale.

Domenica 22 gennaio Isola d’Elba

Così sono i rientri. Il lungo viaggio del sabato. Il tragitto da Mihiripenna a Negombo. Il saluto all’isola attraverso la città più vicina all’aeroporto Bandarainake. Negombo che si affaccia sull’oceano occidentale con la sua straordinaria laguna, ricca da verde e di animali; il suo big market di pesce secco e la gente sulla spiaggia che lo lavora in piccoli pezzi che vengono trasportati in grandi sacchi, tutti gli animali, specie i corvi, rubano incessantemente pezzi di pesce posandosi sulle distese di parti di tonno, di pesce spada e di squalo. Anche le mucche, sulla grande e sporca spiaggia partecipano, quasi a malavoglia, al ghiotto banchetto. Il mercato della frutta, voci, suoni, colori e odori di altri tempi ti prendono per mano e ti portano a passeggio lungo i banchi e le distese di verdure dalle forme inconsuete. Ecco il grande gruppo finisce qui il suo viaggio, prima esperienza comune che nasce dalla voglia di fare, costruire insieme qualcosa. Alla fine una manciata di giorni sull’isola delle spezie, giorni intensi il cui bilancio è in attivo rispetto ai progetti, agli stimoli e alle idee che sono piovuti sulle esperienze di ognuno.

Conserveremo ricordi e sensazioni di una vacanza insieme, i bambini che hanno sperimentato e giocato, e la vita comune di tutti i giorni, tra impegni, profumo di cannella e di altre spezie e pesci multicolori.

Qui l’inverno fa il suo corso. Non è tanto freddo. Gennaio ci sta salutando, ma è inverno, un inverno sull’isola che è diverso da quello nelle città o in continente. E’ inevitabile pensare a quel piccolo pezzo di costa, allo scoglio tartaruga, alla tranquillità che quel luogo esprime. Un ricordo che sta per divenire nostalgico, ma solo per un po’, legato soprattutto alle sensazioni di caldo, di sole e di vacanza; solo per un po’ perché il ponte è stato gettato, su di esso passa ormai una solida strada, che conduce ad Harshi, alla sua famiglia, alle bambine oggi felici di Lorenzo e Lucilla, al villaggio immerso nella giungla di Stefano, alle case che stiamo costruendo e alle donne che potranno lavorare più dignitosamente insieme a noi.

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